C’è voluta una mezz’ora di
chiacchiere per colmare alla bell’e meglio un vuoto di dieci anni, da quando ci
eravamo conosciuti e frequentati, anche con una certa intimità (io dormivo ma
lui si era insinuato nella mia spalla sinistra). Si ricordava, il dottor N.,
della copia del romanzetto che gli avevo regalato alla fine della rieducazione,
da allora si era messo a scrivere anche lui, e di questa sua nuova vita mi ha
raccontato, di un romanzo iniziato con entusiasmo ma non ancora terminato, di
racconti spuntati mentre vagava in compagnia del suo cane, sta aspettando di
averne almeno dodici (perché proprio dodici? Eh, sa, io avrei voluto fare il
musicista...), dei racconti non ancora scritti sul suo mondo, quello
dell’ospedale, della sua passione per i “pazienti difficili”, che non sono
quelli tecnicamente difficili – mi spiega – ma quelli la cui vita è resa
estremamente difficile dalla malattia e che quando arrivano da lui hanno una o
al massimo due cartucce da sparare prima di abbandonare le speranze.
Alla fine gli descrivo
cosa mi è accaduto alla spalla destra. Mi manipola e prova l’arto in questione,
poi si risiede e, con la sua solita pacatezza e serenità, mi suggerisce di
aspettare tre mesi in modo da considerare guarita la spalla: se avrò ancora
sensazioni anomale o paure procederemo a una risonanza magnetica e poi si vedrà
se c’è da fare qualcosa.
Terminato il consulto,
come se avesse notato solo ora un dettaglio, mi chiede: “Ma lei nuota?”
“Veramente dall’ultima
volta che si siamo visti ho cominciato a correre e poi ho corso, e corso, e
corso. Fino a un paio di maratone all’anno. Solo che ultimamente ho aggiunto
anche il nuoto e la bici”.
“Tutto in pausa pranzo,
s’intende, e nel fine settimana”, aggiungo, quasi a giustificarmi.
Lui mi guarda sorridente,
sembra scuotere la testa mentre si accarezza la mandibola con la mano sinistra:
“Che bella irrequietezza!”
Sorrido incerto.
Ci alziamo e ci salutiamo
con una stretta di mano. Sulla porta gli ricordo che abitiamo a pochi isolati
di distanza nello stesso quartiere, ma non ci siamo mai incontrati fuori
dall’ospedale.
Mentre salgo le scale mi
sento bene: non solo sono sollevato per la questione della spalla, sento che
c’è qualcosa di più, sono contento di averlo incontrato, sentivo che i timori
sulla spalla erano quasi un pretesto per vederlo di nuovo, adesso lo so con
certezza.
La morale? Cominciavo a
arrendermi al fatto che la mia fosse solo una strenua ancorché vana resistenza
alla strisciante e inarrestabile decadenza fisica.
Poi lo dico a Elena: non
sto invecchiando, sono solo irrequieto.
Me l’ha detto il dottore.
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