È un racconto di una
trentina di pagine, l’ho trovato incluso in una racconta di tre racconti che
hanno lo stesso protagonista un certo Monsieur Spitzweg. Stavo per scrivere un
certo noioso Monsieur Spitzweg e mi sono trattenuto poi ho pensato che mi ero
trattenuto e che se l’avevo pensato un motivo ci sarà stato e quindi l’ho
scritto. Ora dovrei motivarne la ragione, del noioso, intendo.
Alcuni di voi si
ricorderanno “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita” (1998)
che fece conoscere Delerm anche qui da noi, un classico tormentone, il libro
carino che si legge d’un fiato, una prosa poetica che piace al palato, di
facile beva, come dicono i sommelier a sottintendere che poi resterà ben poco
da ricordare di quel vino.
Ho cercato di dimenticarmi
questo precedente e di leggere questo racconto in quanto racconto sulla corsa.
Effettivamente si tratta di un racconto che parla della corsa sebbene e lo
stile dell’autore e il personaggi descritti mi facciano pensare di leggere un
romanzo di fine ottocento. Però facendoci attenzione le vicende si svolgono
oggigiorno e quindi la sensazione è di osservare attraverso una foschia che
dona un’aura antica a tutto quanto viene narrato.
In breve sintesi questo
Spitzweg, scapolo, impiegato alle poste, per rimettersi in sesto riesuma dell’abbigliamento
sportivo di epoca giovanile e, comprate delle scarpe da running in un negozio
specializzato (unico momento incontestabilmente contemporaneo), si mette a
correre. Finché qualcuno non gli butta lì, come succede a chiunque cominci a
correre: a quando la prima maratona? Al che dopo un primo recalcitrare, come
succede a chiunque continui a correre, l’idea non sembra più tanto peregrina. Spitzweg
si pone come obbiettivo, come succede a chiunque si decida correre la prima
maratona, di portare a compimento la maratona della sua città, in questo caso
Parigi. Si prepara e la corre. Senza tanti fronzoli: per dare un’idea il racconto
della gara in sé occupa esattamente due pagine. Non mi lamento: l’autore dà prova
di non voler sfracassare i cabbasisi dei lettori con cronache dettagliate. D’altronde
il racconto è breve.
Quattr’ore, due minuti e
trentasette secondi, il risultato del nostro: un tempo peraltro onesto per una
prima maratona anche se, cammin facendo, il nostro si era posto come obbiettivo
di stare entro le quattro ore, obbiettivo che non si capisce bene da dove nasca
se non dalla rotondità del numero, che basterebbe cambiare unità di misura del
tempo e non avrebbe più alcun senso.
Comunque dopo l’impresa l’interesse
per la corsa si affievolisce e, come succede talvolta a chi corre una maratona,
non ci sarà una seconda volta: non vuole essere vittima di una fissazione e si
rende conto (e qui il passaggio mi pare molto rapido e poco sostanziato) che
stava solo lottando contro il tempo e che questa lotta non può essere puramente
atletica (boh).
Pertanto decide che deve meditare
e, presa una settimana di ferie, se ne va in un’abbazia benedettina in
Normandia. Terminata la soddisfacente e silenziosa settimana gli basta
scambiare due parole con un monaco al negozio dei ricordini per decretare che
anche questo mondo è contraddittorio e quindi se ne torna al suo tranquillo tran-tran
tutto soddisfatto.
La morale: non esageriamo
con il movimento né con il pensamento.
Boh. Diciamo che, sebbene
la medietà possa essere un ragionevole ideale, mi pare che qui l’autore faccia
un racconto a tesi, in cui vuole dimostrare qualcosa ma si scorda qualche
saggio imperativo della narrazione (show, don’t tell) e spera di cavarsela
spruzzando qua e là della foschia anticante.
Anche questa sorsata di
birra mi ha lasciato un retrogusto troppo amaro: non mi ha convinto neppure la
seconda volta. Non ce ne sarà una terza, Monsieur Delerm.
Monsieur Spitzwed
s’echappe
(nella raccolta
« Monsieur Spitzweg »)
Philippe Delerm
Mercure del France
1998
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