C’è una libreria nel
Marais a Parigi dal nome evocativo, Comme un roman,
che adoro e in cui non manco di fare una sosta ogni volta che mi fermo qualche
giorno. Durante le vacanze di Natale sono riuscito a trovare un altro libro
sulla corsa. Ribadisco che il mio obbiettivo sono libri di narrativa o
saggistica intorno alla corsa ma non dei manuali di corsa. Procedo in due fasi.
La prima è quella più scontata: parto a esaminare la sezione “Sport” e la sottosezione
“Corsa”, ma ovviamente i risultati sono molto limitati e i libri più o meno
sempre gli stessi. La seconda fase, quella più creativa e faticosa, è quella
di scovare un libro sulla corsa tra quelli “normali”. Rarissimamente questa ricerca ha successo e soprattutto quasi mai è merito mio. Questo libro infatti mi
fissava, con la sua copertina rosso fuoco, dal tavolo delle novità filosofiche.
Il titolo Courir era autoesplicativo: l’ho preso senza neanche sfogliarlo, mi è
bastato il sottotitolo: Méditations physiques.
Trovo che corsa e filosofia
siano un ottimo abbinamento e questo non è il primo libro di un
filosofo che vi segnalo (“Correre con il branco”).
Anche in questo caso si
tratta di brevi racconti o riflessioni sulla corsa, non casualmente ‘quarantadue
capitoli e qualche centinaia di parole’, da parte di uno che corre abitualmente
e ha esperito anche varie maratone, pertanto diciamo che sa di che sta
parlando.
Ovviamente non tutto il
libro è allo stesso livello ma ci sono riflessioni e spunti che ho trovato
interessanti.
Si parte dalla diffidenza
nei confronti della corsa di Descartes che nel suo “Discorsi sul metodo”
afferma che “coloro che non camminano troppo velocemente possono avanzare molto
di più, se seguono sempre il dritto cammino cosa che non fanno coloro che
corrono e che se ne allontanano”. Ovviamente il nostro è in disaccordo e cerca
invece di figurarsi una filosofia non tanto della
corsa ma in corsa: che cosa si
esprime nel corpo in moto? Quale visione del mondo si ha durante la corsa?
Queste domande il corridore le sente come degli stati del corpo. In alcuni casi
non se le deve porre dopo aver corso ma proprio mentre corre. Si tratta di
pensare nel movimento stesso.
Ovviamente quella cui si
riferisce Le Blanc è una filosofia non professionale, il suo è un filosofo
amatore che corre tutte le domeniche e che non è sottomesso alle stesse
limitazioni di dover costruire dei pensieri strutturati, sistematici. Il
corridore-filosofo inventa le idee di cui ha bisogno per la distanza che sta
correndo o meglio sono le idee che gli vengono in mente che gli permettono di
popolare la sua solitudine, a meno che non circolino liberamente durante le
discussioni con altri corridori.
Poi però l’autore si rende
conto che la distinzione tra filosofia professionale e amatoriale del corridore
è falsa dato che molte dellle cose che lui stesso scrive nei suoi saggi
filosofici sono passate attraverso quel “laboratorio mobile delle idee”... Correre
consiste dunque nell’inventare dei pensieri sulla corsa alcuni dei quali
potranno sopravvivere alla corsa stessa. Al medico-filosofo di Nietzsche, il
nostro affianca il corridore-filosofo che rivendichi un’arte di pensare a
12km/h...
Ci sono almeno due prove
metafisiche che il corridore-filosofo deve affrontare.
La prima consiste nel
prendere la decisione di continuare a correre mentre gli sarebbe possibile, in
ogni istante, fermarsi. Il dimenticare questa scelta cruciale si chiama, a suo
dire, estasi o grazia, mentre il ricordo costante di questa scelta sarebbe una
pesantezza spossante.
Il corridore dunque finisce
per essere drogato di asfalto: in mancanza di corsa cerca la corsa per colmare
questa mancanza e raggiungere una serenità che si manifesta solo dopo, ma la
società stessa (capitalistica) sembra promettere ben più a chi si avvicini alla
corsa. Quindi la corsa allo stesso tempo è veleno e antidoto, malattia e
medicina.
Più che un consenso alla
dipendenza, secondo l’autore, di tratta di paradosso: una ricerca di dipendenza
come prova di indipendenza. Infatti non solo colui che corre decide di
continuare a correre ma non è affatto sicuro della sua presunzione di farcela:
sarà soltanto alla fine che potrà dire “ho corso”. La posta in gioco, quindi, è
la risposta alla domanda “arriverò fino alla fine?”, ossia una questione di
libertà.
Una seconda prova
metafisica: il corridore non è solo colui che decide di non fermarsi durante la
sua corsa, ma anche colui che decide di non fermarsi ‘dopo’, e di correre
nuovamente. La corsa è allora un evento mentale oltre che fisico: essa viene
corsa mentalmente nella testa di chi ha deciso di fare un’altra uscita, un
altro allenamento.
Quest’ultima mi è parsa
una considerazione molto corrispondente a quanto mi accade e che mi ha fatto
riflettere: la corsa è infatti molto pensata e parlata sia prima che dopo
l’azione della corsa in sé: prefiguriamo un allenamento, ne valutiamo le
difficoltà, i vantaggi, come reagiremo, ne pregustiamo gli esiti, poi dobbiamo
fare i conti con cosa è successo, come abbiamo reagito a determinate
circostanze, anche in confronto con evidenze passate o con altri intorno a noi,
e traduciamo dati, cifre e sensazioni in parole, scritte o parlate. Spesso il
tempo dedicato alla corsa in quanto evento già avvenuto o ancora da avvenire è
maggiore del tempo effettivo della corsa in quanto avvenimento.
Forse non sarà una
questione filosofica ma di sicuro è metafisica, in quanto va oltre agli aspetti
fisici della corsa.
Per quanto riguarda la
categorizzazione, secondo le principali scuole filosofiche, delle fasi del
pensiero durante la corsa (tema affrontato in modo molto più convincente da Mark
Rowlands nel summenzionato “Correre con il branco”): il maratoneta, secondo Le
Blanc, comincia come kantiano quando prova il libero gioco delle sue facoltà.
Prosegue come cartesiano quando sente il corpo venir meno e fa appello alla sua
volontà per ridargli slancio. Finisce spinoziano quando l’essenziale per lui è
di perseverare nel suo essere quando oramai corpo e spirito sono due serie
parallele.
Un capitolo sul conterraneo
Baudrillard non poteva mancare. Ho già avuto modo di parlarvi di quanto scritto
(stavo scrivendo “sbrodolato” forse per assonanza con il cognome) da
Baudrillard sulla corsa nel suo “America” (Correre: odio o amore. Due mezze recensioni).
La critica fondamentale di Le Blanc è che Baudrillard si è posto di fronte a
questa marea di joggers o runners come di fronte a uno spettacolo, non ha
minimamente ipotizzato di poter verificare di cosa si trattasse, di
immedesimarsi. Ha solo visto un suicidio rituale di massa.
Non mancano capitoli
dedicati a racconti o romanzi sulla corsa, come per esempio “La solitudine del
maratoneta” di Sillitoe.
Tutto francese il capitolo
socio-politico su Sarkozy che ha fatto della corsa un suo tratto distintivo
rispetto ai suoi predecessori. In questo caso l’autore riflette sullo
sdoppiamento del corpo ‘istituzionale’ e quello ‘privato’ dell’ex-presidente
francese.
In breve: non si tratta di
un libro imperdibile ma siccome dubito venga mai tradotto in italiano, mi sono
soffermato con una certa attenzione, quasi traducendole, su certe parti che ho
ritenuto di interesse.
Courir – Méditations
physiques
Guillaume le Blanc
Flammarion, 2012
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