Ci è voluto un anno e
mezzo quasi, sedici mesi per l’esattezza, durante i quali almeno una volta a
settimana, ma spesso due volte, ho frequentato lo stesso spogliatoio e ho corso
nello stesso parco e negli stessi paraggi. Solo buongiorno e arrivederci.
A dire la verità un primo
passo avanti l’avevo già fatto durante il periodo di Natale: un giorno in cui nevischiava
e c’era nebbia, ricordo che feci anche delle foto che mandai ai miei compagni
che nello stesso momento stavano uscendo per correre a Firenze, – per fare lo smargiasso: tanta neve tanto onore! Quel
giorno lì, nello spogliatoio deserto, incontrai solo due dei più assidui, che
casualmente arrivarono in tempi diversi, per cui mi trovai da solo a solo prima
con uno e al ritorno con l’altro: attaccai discorso non ricordo esattamente su
cosa, senz’altro sul tempo. Fatto sta che stabilii un minimo di contatto, anzi due
contatti, tanto che la volta dopo, uno di questi mi guardò e, ammiccando agli
altri che affollavano lo spogliatoio, mi disse: ma l’altra giorno non c’era
così tanta gente!... Orazio invece scoprii che era originario di Scandicci: per
uno lontano da Firenze è come un piemontese e un sardo che si incontrano al
polo nord: compaesani! Con loro due potevo almeno scambiare due parole nello
spogliatoio. È stato proprio Orazio, un paio di settimane fa, a farmi l’onore
di invitarmi a correre insieme, era solo e stavamo chiacchierando mentre ci
preparavamo: abbastanza ovvio, ma non scontato. Potrei contare quell’evento per
sancire la mia entrata in società ma non mi sembra corretto: era sempre una
persona o due, mentre per tutti gli altri continuavo a essere uno sconosciuto che
correva accanto a loro ma in un universo parallelo. Quante volte li ho sentiti
scherzare tra loro, parlare delle imprese del fine settimana, uno di loro ha
fatto ben sette volte il trail del Monte Bianco, un altro fa i lunghi da trenta
chilometri, senza forzare, a un’andatura a cui io riesco a correre un
chilometro: non era facile inserirsi – ingenuo gradasso – in una conversazione.
Stavolta sono arrivato
presto, mi sono cambiato e sono uscito mentre tutti arrivavano alla
spicciolata. Poi mi sono messo fuori a aspettare che il Garmin agganciasse i
satelliti e li ho visti uscire uno alla volta e aspettarsi fino a che il gruppo
è partito. Erano cinque. Uno di loro, che non avevo mai visto prima, mi ha pure
sbirciato, per capire chi fossi: ero lì ma non correvo con loro e neppure mi
salutavano uscendo. Un pària.
Il Garmin non ne voleva
sapere di prendere questi benedetti satelliti, intanto erano spariti. Ecco,
posso partire. Trotterello verso l’uscita del parco e li vedo sfilare fuori dal
cancello: allora sono ancora vicini! Non ho idea di quanto possano andare
veloci e se io sarei stato in grado di correre con loro quand’anche mi avessero
invitato, cosa che non hanno fatto. Comunque, anche solo come diversivo, decido
di seguirli. Sono a un centinaiao di metri, girano a sinistra. Quando anche io arrivo
all’angolo, sono sempre alla stessa distanza. A un incrocio taglio leggermente
e guadagno una decina di metri. A un semaforo loro rallentano per il rosso, io
passo con il verde pieno, sono a una trentina di metri. Controllo: non stiamo
andando troppo veloci, potrei tenere la loro andatura. Ma devo raggiungerli
senza spomparmi. Guadagno metro dopo metro e all’uscita di un parchetto sono in
coda. L’ultimo del gruppo, quello che mi aveva sbirciato in partenza, sorpreso
dal rumore di passi alle spalle si sposta leggermente di lato per dare spazio,
io mi mantengo dietro. Quando la strada si allarga mi affianco ai due più “anziani”
e dico, rivolto al vuoto davanti a me con tono sostenuto:
“Chiedo il permesso di
aggregarmi a voi”.
“Permesso accordato”, mi
risponde il più alto in grado, anche lui senza distogliere lo sguardo
dall’orizzonte.
Da quel momento sono parte
della squadriglia, dello stormo, facendo attenzione a non stare davanti ma
neppure sempre e solo dietro, che non pensino che non ce la faccia a tenere il passo,
meglio in seconda fila e comunque sempre senza intralciare il cammino degli
altri, che continuano a chiacchierare e scherzare tra loro. Io, sia pur silente,
sto nel gruppo: ci muoviamo sincroni, ci adattiamo alla situazione modificando
la formazione, in fila indiana, appena possibile in fila per due, in uno
spiazzo ci apriamo a ventaglio: quattro davanti per chiacchierare meglio e due in
retroguardia, nel viale che circonda il laghetto siamo compatti tre e tre, per
poi tornare in fila da due quando rientriamo in strada, e rapidi in fila
indiana se passa un’auto. Mi sento bene perché mi muovo a tempo con gli altri. Mi
accorgo che, senza farlo vedere, ognuno di loro mi osserva di sottecchi, quando
gli sto accanto o momentaneamente davanti o dietro. Ma nessuno mi detto niente.
All’ultimo chilometro il
più alto in grado si rivolge a me. Che è il più alto in grado l’ho pensato da
subito, per come è sicuro senza essere uno sbruffone, per come gli altri gli
stanno intorno, in formazione: lui è sempre al centro ma spostato in avanti,
guida senza però essere necessariamente il primo. Ha una maglietta di cotone
dell’Ikea e un paio di pantaloncini non particolarmente tecnici, non ha bisogno
di farsi notare con tenute professionali: natural
born leader.
Si scusa per la goliardia
del gruppo, a Firenze sarete più seri. È una frase di cortesia buttata lì,
poteva chiedermi del tempo e sarebbe stato lo stesso. È l’autorizzazione al
livello superiore, la parola, dopo l’apprendistato silenzioso del novizio.
Sono entrato nello stormo.
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