È un piccolo
evento che mi è tornato in mente durante una cena sabato scorso e l’ho
raccontato perché secondo me rappresenta in modo netto una persona oltre che un
insegnamento.
Prologo: un
collega, compagno di corsa e, spero, amico, ha avuto un grave incidente
occorsogli proprio mentre correva. Ha recuperato e dopo neanche un anno ha
corso la sua seconda maratona. Insieme a altri colleghi e compagni di corsa, abbiamo
preparato e condiviso le scorse maratone di Venezia e di Firenze.
L’evento: mesi
fa stavamo discutendo di cosa sarebbe successo se uno non si fosse presentato alla
partenza di una gara. Lui sosteneva che sarebbe stato, se non rimborsato, almeno
compensato con l’iscrizione all’anno seguente.
Rimasi
interdetto e poi sbottai: “Ma bisognerà dimostrare che era un motivo serio!”
E lui: “A me è
successo... ero in coma!”
Rimasi zitto per
qualche secondo puntando a terra poi lo guardai e, tranquillizzato dal suo
sguardo sereno, sorrisi: “Eh, vabbè, allora!...”
Non si tratta
di ridere di qualunque cosa, di sdrammatizzare a ogni costo, no, si tratta di
dire semplicemente le cose chiamandole per nome e parlarne come si trattasse di
fatti che riguardano una terza persona: non è anormale raccontare a qualcuno
che un amico ha avuto un incidente e è finito in coma, a prescindere dal fatto
che chi ne parla si senta dispiaciuto o no: si parla, si racconta. Normalmente.
Si fanno anche le battute, magari con affetto. Ma parlando di una terza
persona. Ecco: lui parlava di sé e di quell’incidente con la leggerezza di chi
parla di qualcosa accaduto ad altri. Senza autocommiserazione, senza voler
suscitare l’altrui compassione né scandalizzare, né soprattutto allontanare.
Ecco lui è
così. Per me è come se mi insegnasse – senza certo intenzione – a essere semplice
e onesto con me stesso e quindi con gli altri: pensare a me stesso con la
stessa lucidità e distanza con cui penserei a un’altra persona.
Che poi io
abbia imparato questa è un’altra storia.
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