Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

sabato 28 giugno 2014

Non divaghiamo. Semmai tri-vaghiamo

Quando faccio una cosa per la prima volta, sento la necessità ineludibile di raccontarla a tutti, come se quella cosa esistesse solo da quel momento e proprio grazie a me.
E lo stupore di coloro ai quali racconto la vicenda mi conferma nella mia convinzione e mi autorizza, mi incoraggia a continuare nell’opera di divulgazione.
Incredulità mista a fastidio mi causa l’incontrare qualcuno che quell’esperienza l’ha già vissuta da  tempo o, peggio ancora, ripetutamente e quindi per lui adesso rappresenta una banalità. A quel punto non posso far altro che, ah davvero?, e svicolare prima possibile per evitare che quello parta con il suo racconto di innumerevoli vicende che replicano, se non superano in difficoltà, drammaticità o solo interesse, la mia, banalizzandola e retrocedendola a racconto di fatto usuale, per niente unico.
Quanti scrittori per esempio hanno pubblicato libri, racconti, lettere a figli appena nati: un momento unico e indelebile nella vita di ogni uomo e ogni donna ma a meno di non produrre un capolavoro della letteratura quasi ogni lettore avrà avuto lo stesso momento unico e indelebile, solo leggermente diverso, con diversa ambientazione e personaggi. E pensa: potevo scriverlo anche io. Tra il dire e il fare eccetera eccetera, però vero è che il tema non è originale.

E allora? Allora lo scrittore o il raccontatore in genere dovrebbe pensarci due volte prima di ammorbare gli altri con racconti unici ma in fondo comuni.
Ci penso. Pensato? Ci ripenso. Fatto. Ora vi racconto una vicenda unica che ho vissuto sabato ventuno giugno.

A dire la verità è una vicenda unica che ho vissuto insieme a altri duecentocinquanta persone, però vabbè per me, e anche per Matteo che era con me, è stata una vicenda nuova e, fintanto che non la ripetiamo, unica.
Insomma io ve la racconto lo stesso perché sono sicuro che almeno qualcuno dei miei venticinque lettori non l’ha vissuta e se ne stupirà. Almeno un paio degli stessi venticinque l’hanno esperita già e ripetutamente, anzi magari mi hanno aiutato con amorevoli consigli prima. Mi scuso per annoiarli con questo racconto, potete anche fermarvi qui e non ve ne vorrò, ma è irrefrenabile: devo raccontarla.

I più attenti dei miei lettori si erano già ammoscati del fatto che avevo ibridato questo luogo di corsa con alcuni racconti che mi vedevano in veste non già di runner, bensì di ciclista. Ah! Orrore! Sì lo so, la pensavo anche io così, da purista. Però poi mi sono accorto che esiste tutta un folto gruppo di amici, parenti, colleghi, insomma persone vere e a me vicine che incomprensibilmente invece di correre vanno in bici con eguale passione, soddisfazione. E che celano lo stesso dubbio e sospetto nei confronti di coloro che invece di andare in bici preferiscono incomprensibilmente correre a piedi.
Qui partirebbe una riflessione più generale sul Diverso: non mi pare il caso, comunque avete capito l’antifona e quindi ve la potete sviluppare per conto vostro una volta terminata la lettura di questo racconto.
Se bici e corsa spesso rappresentano due mondi separati e talvolta distanti (non mancano i frequentatori di entrambi, ma cambiano veste – oggettivamente – e forse anche mentalità passando dall’uno all’altro), il nuoto fa storia a sé: chi lo odia, chi lo ama, tutti (o quasi) l’hanno dovuto imparare, è noto che “fa bene” e effettivamente fa bene, soprattutto a chi pratica altri sport più traumatici, come per esempio la corsa.
Ci siamo quasi: corsa, bici e nuoto.
Se poi lo famo strano, ossia tutti e tre consecutivamente senza requie, ecco il triathlon.
Ammetto che la premessa è forse più estesa del racconto stesso. se avete ancora voglia vi racconto lo strano caso del runner che si è fatto triatleta, o più umilmente che ha provato a vedere di che si trattava e ha portato in fondo quella che per lui rappresentava un’impresa.
Invece si trattava solo di un triathlon Sprint, ossia 750m di nuoto, 20km di bici e 5km di corsa. Chi ha la benché minima dimestichezza di uno di questi sport a questo punto ha già  pensato: così poco? Ma non ci vuole nulla! Esatto: per chi fa nuoto fare una trentina di vasche da 25m è un allenamento leggero se non un riscaldamento. Lo stesso dicasi di 20km per un ciclista e di 5km per un runner: il minimo, anzi forse quasi troppo poco per valer la pena di cambiarsi e uscir di casa.
Messa in termini di tempo, in termini grossolani, si tratta di 15’ di nuoto, 45’ di bici e 25’ di corsa, ossia, come pura somma aritmetica 1 ora e 25 minuti a cui vanno aggiunti alcuni minuti per indossare scarpe e casco e prendere la bici e poi lasciare la bici, togliersi casco e cambiarsi le scarpe, e si arriva a un’ora e mezza.
Vista così la questione cambia un po’: si tratta comunque di uno sforzo continuativo e non blando di un’ora e mezza, per un runner potrebbe essere assimilata – sempre grossolanamente – a una mezza maratona.
Fatta questa ulteriore premessa tecnica arrivo al punto, ossia alla vera difficoltà che ho riscontrato e che non traspare dai numeri: normalmente in questo tipo di gare, a parte talvolta quelle più brevi, come lo Sprint, la frazione di nuoto si svolge in acque libere: mare o lago. Ognuno ha i suoi pro e i suoi contro.
Fatto sta che io e Matteo per la nostra prima esperienza abbiamo scelto la gara Ironlake di Barberino del Mugello che ovviamente utilizza l’invaso di Bilancino per la parte acquatica.
Ora, a parte simpatie o antipatie per la balneazione nei laghi, la prima anomalia che mi sono trovato a fronteggiare è che in acqua non si vede niente: ossia è tutto di un colore verde più o meno scuro a seconda dell’intensità del sole e opaco: non riuscivo neanche a vedere le mie mani mentre nuotavo: per uno che è abituato a nuotare in piscina, in cui puoi controllare il movimento, seguire la riga per andare diritto e sapere quando girare, guardare quelli che ti nuotano davanti e intorno, non vedere niente e dover alzare la testa per capire se si sta andando nella direzione giusta è un discreto shock.
Avevamo fatto una prova il fine settimana precedente e il risultato non era stato confortante: una sorta di ansia ci prendeva e la nuotata si faceva faticosa e pur avendo nuotato solo 400m mi sentivo esausto.
Al momento della partenza della gara vera la cosa si è complicata: tutti allineati sotto un ponte di legno, siamo partiti in duecentocinquanta puntando tutti a una stessa boa che era laggiù verso il centro del lago. La fisica ha voluto confermarci una volta di più la legge dell’incompenetrabilità dei corpi e dopo poche decine di metri avevo persone che battevano braccia e gambe davanti, dietro, a destra e a sinistra, se non sopra: l’acqua rembrava ribollire dalle fitte onde in tutte le direzioni e a un certo punto mi sono dovuto fermare per sopravvivere: ero incastrato tra qualcuno a destra e qualcuno a sinistra e la nostra traiettoria era convergente e per nulla parallela. Vincendo la tentazione di fermarmi e uscire da quella baraonda ho insistito. In tutto ciò non riuscivo, letteralmente: non riuscivo a nuotare se non tenendo la testa fuori dall’acqua, come le signore che al mare non vogliono sciuparsi la pettinatura. Inspiegabilmente dopo circa trecento fatti in questo modo ho cominciato a nuotare normalmente e da lì sono arrivato a uscire dal guado infernale.
Il tifo di Emanuele, Elisa, Sofia e Lorenzo (i bimbi non sono nuovi a imprese del genere come quello striscione a Firenze 2012) mi ha aiutato – scuotevo sconsolato la testa mentre li guardavo - a correre verso la zona cambio. Elena invece non riesce a incitarmi: le resta sul viso un’aria preoccupata che mi viene a me da incoraggiare lei!
La formalità e il rigore che vigono in zona cambio meriterebbero un racconto a parte, mi limito a dirvi che ognuno deve appendere per il sellino la bici al palo orizzontale in corrispondenza del proprio numero e disporre a terra dalla parte della catena le scarpe da bici e quella corsa, sul manubrio troveranno alloggiamento il casco con gli occhiali e il pettorale (che non si può indossare nuotando: lì il numero è scritto sulla cuffia). Disporre la propria roba fuori dagli spazi indicati dai giudici o non avere il casco allacciato mentre si transita in zona cambio causano la squalifica.
La frazione in bici, per me piuttosto difficoltosa, l’ho vissuta come una scampagnata in solitaria, cercando di agganciarmi a qualche altro concorrente senza mai riuscirci.
Arrivato a mettermi le scarpe da corsa ero doppiamente rinfrancato: innanzitutto mancava poco alla fine e poi ero a casa. Finalmente ho recuperato qualche posizione, non che puntassi a chissà che piazzamento, ma l’orgoglio è l’orgoglio e quella era una gara. Però non sono riuscito a spingere quanto mi ero immaginato, complici – penso – la stanchezza per le frazioni precedenti e il caldo: non l’ho detto ma la gara è partita alle 13.45 del 21 giugno, e a quel punto mentre i primi avevano già fatto le interviste di rito e si intrattenevano al Pasta Party, io mi aggiravo su una stradina di terra battuta al livello dell’acqua e, se si fermava quel refolo di vento che ci ha salvato la vita, le vampate di calore che venivano dal lago erano asfissianti.
Mi è sembrato che questi cinque chilometri fossero più lunghi del previsto, però vedere l’arco dell’arrivo con Elena, Elisa, Ema e i pronipoti è stato un bella emozione.

È stata una bella esperienza, e la stanchezza tutto sommato accettabile, forse perché più “distribuita”. Comunque, per onestà, all’ora di cena non mi reggevo in piedi.

La morale: non sarò mai un ciclista né tanto meno un nuotatore, sono e resto un runner. Però l’allenamento per un triathlon ti fa sentire meglio fisicamente rispetto a un allenamento altrettanto duro per la sola corsa. La gara di triathlon è variegata anche se probante. E anche l’ambiente è allo stesso tempo più competitivo e più famigliare, solidale, forse perché è una nicchia ancora più raccolta di “fissati”. Sì, forse i “fissati del triathlon” sono dei fissati più fissati dei “fissati della corsa”. E più variopinti.


PS: E poi avevo un bellissimo tutù, no: body, si chiama body!, con il quale si nuota, si salta in bici sperando che si asciughi prima dell’eventuale discesa, e poi si corre e a quel punto il bagnato è solo sudore.

domenica 15 giugno 2014

‘La corsa’ di John L. Parker (un bel romanzo davvero)

“Il miglior romanzo sulla corsa mai scritto", Runner's World, recita la copertina. Neanche una fascetta: la copertina. Già questo sarebbe bastato a impedirmi l'acquisto se avessi visto questo volume in libreria. Ma io non ho avuto questo problema dato che me lo sono fatto regalare per il compleanno.

Se sia il miglior romanzo sulla corsa che sia mai stato scritto non lo so, per adesso posso dire è un bel romanzo, non un capolavoro della letteratura ma onesto e ben scritto. Certo, dopo aver letto “Born to run” di Christopher McDougall, mi pareva difficile poter leggere un libro sulla corsa che mi piacesse di più.
Non so se mi è piaciuto di più o di meno, ma mi è piaciuto molto. Va detto che sono due oggetti diversi: mentre quello, pur esaltante, era una narrativa comunque di tipo autobiografico, una sorta di reportage, questo invece è un vero e proprio romanzo, un classico romanzo di formazione, con una bella ambientazione e bei personaggi, una storia e un lieto fine.

La trama non ve la racconto, vi dico solo che è ambientato alla fine degli anni sessanta in un'università del sud degli Stati Uniti, con le problematiche politiche e sociali tipiche di quegli anni, oltretutto in una parte del paese non certo progressista, a cui si innesta l'arrivo del professionismo nello sport.
Il tema principale è la corsa, in particolare il mezzofondo: il miglio e corse analoghe, ma avrebbe potuto altrettanto essere il footbal, o uno degli altri sport praticati nelle università americane.

A me ha fatto venire in mente, mutatis mutandis, "Momenti di gloria": quarantant'anni dopo e siamo in un college di secondaria importanza del sud degli Stati Uniti anziché a Cambridge in Inghilterra.
A scanso di equivoci: il film è uscito qualche anno dopo la pubblicazione del libro di Parker e la sceneggiatura non si appoggiava a un romanzo precedente ma è stata sviluppata originalmente per raccontare la vicenda vera di due velocisti inglesi. Quindi è una pura coincidenza e la similarità si limita al fatto di essere ambientato in un college e che si tratti di corsa. E entrambe le storie sono basate su vicende realmente accadute.

Spesso si cerca di tradurre in parole cosa significhi correre, cosa si pensi mentre si corre o cosa si prova mentre si corre. È impossibile ovviamente, come è impossibile trasferire in linguaggio scritto tante altre emozioni o pensieri, però devo ammettere che ci sono alcuni passi in cui sembra di capire cosa il protagonista sta provando nel momento dello sforzo, sia in allenamento che in gara, che sono due situazioni, pur di corsa entrambe, molto diverse.

Purtroppo il titolo italiano, non certo originale, fa pensare più a un manuale che a un romanzo, da cui si capisce il bisogno dell'editore di scrivercelo in evidenza. Il titolo originale, Once a runner, suona meglio però non è detto che una traduzione letterale fosse altrettanto efficace. Neanche la copertina è granché.

In breve: da leggere, di corsa!

La corsa
John L. Parker
Ultra Novel, Lit edizioni 
2013

(Titolo originale: 'Once a runner', edito negli Stati Uniti nel 1978!)

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