Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

martedì 8 luglio 2014

Correre: odio o amore. Due mezze recensioni (America di J. Baudrillard; The faith of a writer, J.C. Oates)

Recensione parallela di due libri che non sono specificatamente dedicati alla corsa ma che della corsa in alcune parti parlano e quindi io ve ne parlo solo relativamente a queste parti.

Chi mi abbia segnalato America di Jean Baudrillard come libro sulla corsa non lo ricordo, so solo che mi sono appuntato questo titolo e questo nome. Poi facendo acquisti in rete e approfittando di un forte sconto ho cercato e trovato questo titolo. E l’ho acquistato. Senza sapere chi fosse questo Baudrillard e senza sapere di cosa parlasse il libro. Certo intitolandosi America potevo avere qualche sospetto. Quando mi sono disposto alla lettura mi sono accorto che si trattava di una raccolta di saggi (e non di narrativa come speravo) sull’America e in particolare sulla decadenza contemporanea sociale, politica e sopratutto culturale degli Stati Uniti. In tutto ciò che c’entra la corsa? Mi chiedo. E intanto andavo avanti. E dopo una dozzina di pagine ecco una traccia. Mentre, nella prima metà degli anni ottanta, vaga per il vasto paese osservandone i costumi, il nostro ha molteplici occasioni di osservare una razza particolare e assai frequente a quelle latitudini: i runners o joggers.
Alla fine di più di cento pagine che ho scorso rapidamente (ammetto che non mi interessava l’argomento né mi ha appassionato un’analisi che la spessa patina dei trent’anni che sono passati rendeva immune a una lettura odierna), ho rintracciato in tutto cinque pagine sulla corsa.
Le sue osservazioni sono quelle dell’antropologo bianco che osserva una tribù di curiosi autoctoni.
Mi permetto di riportarvi alcuni stralci esemplificativi e autoesplicativi.
A proposito della maratona di New York dice che è “uno spettacolo da fine del mondo. Si può parlare di sofferenza volontaria come di schiavitù volontaria? [...] tutti cercano la morte, la morte per sfinimento che fu quella del maratoneta di duemila anni fa [...]. Anch’essi sono portatori si un messaggio vittorioso, ma sono in troppi, e il loro messaggio non ha più senso, se non quello del loro stesso arrivo, al termine del loro sforzo – messaggio crepuscolare di uno sforzo sovrumano e inutile. Collettivamente, porterebbero piuttosto il messaggio di un disastro della specie umana, dato che la si vede degradarsi di ora in ora col susseguirsi degli arrivi [...].”
Poi a proposito dei runners che ha osservato in giro per New York, il quadro è piuttosto impietoso ma in alcuni tratti mi riconosco abbastanza, quindi non mi indigno più di tanto:
“Si può fermare un cavallo imbizzarrito, non si ferma un jogger in azione. [...] guardatevi soprattutto dal fermarlo per chiedergli l’ora, sarebbe capace delle peggiori reazioni.”
E ancora:
“Ha lo sguardo stralunato, la saliva gli cola dalla bocca, ma non fermatelo, vi picchierebbe o continuerebbe a saltellarvi davanti come un indemoniato.”
Per poi concludere assimilando il runner che corre da solo, e quindi isolato, fino al proprio esaurimento, a fenomeni di autodistruzione piuttosto comuni in quegli anni negli stati uniti, come l’anoressia e l’obesità.
Non ho alcuna intenzione di mettermi qui a dibattere sulle teorie dell’autore: posso comprenderle ma le vedo anche offuscate da una prospettiva tutta esterna, gli manca tutto il resto ma d’altra parte non si può pretendere che un telecronista sappia giocare a calcio o uno storico dell’arte dipingere.
Detto ciò, se qualcuno qualcuno a cui avete fatto un torto di cui non vi ricordate, vi regalasse questo libro cercando di incantarvi dicendo che parla di corsa, rifiutate cortesemente o se impossibilitati dalla vostra bontà d’animo, dopo che questi se ne è andato NON LO APRITE e riponetelo al sicuro. A richiesta potete utilizzare quanto sopra per dargli a intendere che ci siete cascati.
La mia è solidarietà tra runners.

America       
Jean Baudrillard       
SE, 2000 (edizione francese: 1986)

Dall’odio all’amore per la corsa: ecco una raccolta di testi di Joyce Carol Oates che non finirà nello scaffale dedicato ai libri sulla corsa bensì in quello sulla scrittura e quindi non ne dovrei parlare qui. Però un saggio di una decina di pagine che vi è contenuto “Running and writing” è, come dice il titolo stesso, incentrato tutto sulla corsa.
In queste poche pagine la prolifica scrittrice americana enuncia alcune semplici considerazioni sulla corsa che chi ama scrivere e correre conosce già ma dette con le semplici e nitide parole di una grande scrittrice è come se le scoprisse per la prima volta.
Innanzitutto l’analogia tra sogno e corsa: come nel sogno la mente è senza corpo e vola e si muove senza peso, così nella corsa pulsa al ritmo del corpo che si sposta rapido.
Poi la funzione ispiratoria della corsa: ecco che la scrittrice durante la corsa nel pomeriggio riesce a risolvere quello su cui si era dibattuta inutilmente la mattina standosene seduta al tavolo.
Infine una verità che chi corre e scrive conosce bene per esperienza diretta: quello che l’autrice pensa, costruisce e si ripete durante la corsa non ha altro che trascriverlo non appena tornata a casa. Non solo correre le permette di scrivere ma anche di “vedere” con una coscienza aumentata quello che immagina e scrive durante l’atto motorio.
Tutto qui. Pura verità.

‘Running and writing’ nella raccolta "The faith of a writer"
Joyce Carol Oates
HarperCollins, 2003


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