Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

martedì 26 febbraio 2013

Le solette, what else?


Per me finora le solette era una parte della scarpa, punto. Quando uno compra un paio di scarpe da running, dentro ci trova, ovviamente, le sue belle solette. Oneste, con il logo che occhieggia mentre le osservi dall’alto. Le estraggo quando lavo le scarpe, le faccio asciugare separatamente e poi le reinserisco facendo attenzione che non si formino pieghe o grinze che, sia pure impercettibili, poi correndoci per chilometri finirebbero per essere insopportabili.
Da qualche rara pubblicità su riviste specializzate, so che esistono solette che si possono comprare separatamente ma non ne ho mai avuto bisogno o comunque non ne conosco il beneficio. Per non sbagliare, visto che già azzeccare la scarpa giusta è una sorta di congiuntura astrale, non mi sono mai azzardato a inserire anche la variabile “soletta” nell’equazione. Fine.
Settimane fa ho dismesso un paio di Adidas comodissime ma che avevano la suola usurata. A parte il battistrada non dimostravano di essere troppo usate quindi mentre le donavo alla Caritas (dopo averle ovviamente lavate per l’ultima volta) ho trattenuto le solette sostituendole con un paio che avevo tenuto di riserva di un paio di scarpe ancora più vecchie. Se dovevo tenere una paio di solette di riserva, preferivo che fossero quelle di un paio di scarpe con cui mi ero trovato veramente bene.
Dall’altra parte, le scarpe che sto attualmente utilizzando per i lunghissimi sono delle Nike antipronazione ben stabili ma financo troppo “dure” sotto il piede.
Oggi, per una tranquilla sortita di un’ora ho fatto una prova, così per fare, ho sostituito le solette delle Nike “dure” con quelle delle comodissime Adidas. Bum! Le Nike sono diventate improvvisamente più “morbide”, più comode...
La morale: le solette esistono e possono essere diverse le une dalle altre. Talvolta possono fare addirittura la differenza.

PS: chissà allora quale effetto miracoloso possano avere quelle superspeciali... No, prometto che non le compro... mi mancavano solo le solette!...

sabato 23 febbraio 2013

La moglie del podista (vorrei averlo scritto io)


Avrei voluto essere una moglie di podista per averlo potuto scrivere io questo “La moglie del podista”Leggételo è esemplare! 

Dopo averlo letto con Elena e averci riso abbondantemente, mi sono fermato a riflettere su quante volte anche io abbia accennato, sia pur di sbieco, al ruolo non marginale della moglie del podista. Ovviamente il punto di vista è opposto ma mi sono divertito a perlustrare i vari luoghi in cui ne ho parlato negli ultimi (e primi) venti mesi.

Ho ritrovato di quando la moglie del podista ha uno slancio (spesso irripetibile) di affetto e ti accompagna (in bicicletta) in una sgambatina rapida alle Cascine in un bel pomeriggio primaverile (Sorpresa dopo l'uovo di Pasqua (un’altra riflessione sull’alimentazione))

Oppure quando è falsamente partecipativa (ma non ipocrita: solo falsa per amore) e ti saluta con un affettuoso “Buona gara”.
Io l’ho guardata sorpreso: “Volevi dire ‘Che coglione che sei a uscire con questo umido’, vero?”“Sì, - ha ammesso lei sorridendo -  ma ‘buona gara’ è più carino!”

Certe volte (La moglie del maratoneta (a letto con la febbre)) ho cercato di sottolineare i momenti di eroismo silenzioso del podista il cui pensiero amorevole è rivolto alla moglie (perché lui in fondo a se stesso lo sa che è una santa) ma il suo atto eroico sarà inesorabilmente tradito da un sospetto (da parte di lei) di opportunismo strisciante (da parte di lui).

Sublime è la moglie del podista quando trasforma un momento odiato, quale la colazione prima dell’allenamento mattutino, in un rituale unificante e quasi romantico (La colazione mattutina (aspetti sociologici più che nutrizionali)).

Ho ritrovato anche i momenti di passione e di sofferenza a cui il russare del runner stanco sottopongono l’adorata mogliettina e di come il runner stanco possa escogitare metodi geniali, ancorché masochisti, per evitare fastidi alla stessa (Russare e gli stratagemmi per non (e la corsa non aiuta!).

E di come la moglie del podista è felice di vedere le foto che ritraggono il fiero podista (e ovviamente distorto dalla sofferenza) durante la sua ultima gara (Le foto di me che corro - una riflessione dolceamara).

Di come sono sottili psicologhe le mogli dei podisti che riescono a analizzare i secondi fini della corsa del marito come la fuga dalla realtà e dalle sue faticose abitudini quotidiane (La corsa: relax con fuga finale) oppure fingono di arrabbiarsi per tutte le magliette, pantaloncini e scarpe che il marito acquista di nascosto per poi commuoversi nel rimirare il loro bambinone felice con il nuovo giocattolo (La rivincita dei pronatori (fantastiche scarpe nuove!))... Qui la sottile psicologa dovrebbe passare alla cura di un vero psicologo ma non aggiungiamo livelli ulteriori, noi podisti siamo anime semplici.

Infine ritrovo, nel ricordo del “dopo” la prima maratona, l’affetto e la dolcezza della moglie del podista che ama il marito anche se è podista e sapendo di amarlo evita di infierire quando ne avrebbe una facile occasione:
Elena mi prepara una pasta, non so neppure io cosa mi va di mangiare e se mi va di mangiare. Nel dubbio, decido di mangiare, anche se sono già le tre e mezzo quando mi siedo debolmente in cucina. Mi sembra di essere un paziente sotto osservazione, per fortuna Elena è affettuosa e evita asserzioni, usuali durante la preparazione, del tipo “il male voluto non è mai troppo” perché adesso soccomberei. Ho bisogno di cura e non che mi si ricordi che, se sono fava e mi vado a autodistruggere, è colpa mia.

La morale? Evviva la “moglie del podista”...

martedì 19 febbraio 2013

Il disgusto (zuccotto, pomodori e cetrioli)

Ci sono voluti vent’anni perché riuscissi a rimangiare lo Zuccotto (una sorta di cassata gelato a forma semisferica con la superficie esterna di pasta soffice leggermente imbevuta di liquore) dopo una indigestione occorsami da piccolo di cui non ricordo assolutamente nulla (tranne una costante avversione a quel dolce).
Per cinque anni ho scansato pomodori e cetrioli (soprattutto se abbinati) dopo quattro giorni di villeggiatura forzata in un impianto nel mezzo della costa libica. A pranzo e a cena venivamo accompagnati con estrema formalità in una grande sala, con vista sul mare e su una terrazza con piscina intoccata dagli anni settanta. Per quattro giorni, a pranzo e a cena si ripeteva un rito che iniziava immancabilmente con un piatto di verdura: pomodori e cetrioli.
E allora?
Sono preoccupato.
Domenica scorsa ho partecipato alla Mezzamaratona di Scandicci come d’abitudine negli ultimi anni. A sei chilometri dalla fine ho avuto una inattesa crisi: improvvisamente ho rallentato nettamente mentre lo sforzo rimaneva lo stesso (me ne sono accorto solo perché perdevo visibilmente terreno rispetto ai vicini di corsa). Alla fine ero stranamente distrutto e non mi riusciva neppure di rifocillarmi al ristoro. Andando verso l’auto mi sono appoggiato alla spalla di Gianluca – io che sono quasi il doppio di lui – che è rimasto sorpreso da quello che non era un abbraccio fraterno.
Arrivato a casa mi sono infilato nel letto e ho scoperto di avere qualche linea di febbre (sufficiente a mettermi cappaò) per poi arrivare a trentotto nel pomeriggio (moribondo).
Il giorno dopo è passato quasi tutto ma sono preoccupato: e se poi rimanessi disgustato dalla corsa, associata nella mia testa a quel ricordo fastidioso?
Già ho notato che non posso per il momento ricorrere alla corsa per addormentarmi: non mi tranquillizza come invece era solita fare (La corsa: relax con fuga finale).
Speriamo che passi.

PS: Vi immaginate: non riuscire più a correre per associazione mentale? Sarebbe la dimostrazione per assurdo che la corsa è un'attività primariamente intellettuale anziché fisica...
Bel risultato... Spero solo che mi passi (senza metterci anni).

giovedì 14 febbraio 2013

La finestra dell’ottavo chilometro

Oramai lo so, non dico che me lo aspetti perché mi pare impossibile dato che ogni volta che parto un lunghissimo faccio sempre una gran fatica nonostante che il ritmo sia tranquillo.
Tra parentesi, il passo da lunghissimo è proprio quello da ritmo “chiacchierata”, ottimo pertanto per passare un paio d’ore con un amico. E ringrazio di avere quasi sempre un compagno con cui condividere un lunghissimo: oltre a poter chiacchierare di qualunque cosa, aiuta moltissimo a distrarsi e a arrivare alla fine (diciamo almeno fino al ventesimo chilometro) quasi senza accorgersene.
Comunque tornando a quello che so e a cui accennavo all’inizio: per i primi chilometri mi sento sempre molto affaticato, e, se mi distraggo a pensare a quanti chilometri ancora dovrò fare, è dura non scoraggiarmi o perlomeno mi pare impossibile potercela fare.
Poi però succede una cosa strana: improvvisamente alzo la testa, sorrido al paesaggio, prendo con brio la guida, mi sento proprio bene. Lo so anche senza guardare il garmin: ho fatto otto chilometri. Ovviamente se non sono otto saranno nove, di certo non sono sei né dieci.
È la “finestra dell’ottavo chilometro”, quella a cui mi affaccio sereno a contemplare il paesaggio. Purtroppo la finestra va chiusa poco dopo il decimo chilometro. Anche allora quasi non me ne accorgo però ho ripreso a controllare l’andatura, la posizione, la respirazione per mantenere il passo del mio compagno. E tutto torna normale.
Quindi, almeno per me, oltre al “muro del trentesimo chilometro” (abitualmente per me varia tra il trentesimo e il trentaquattresimo, e se non è proprio un muro è comunque una bella cancellata), esiste la “finestra dell’ottavo chilometro”.

C’è nessuno che ha uno stato di grazia (o di crisi) ricorrente, tipo, che so, la “porta del ventesimo” o “lo stagno del venticinquesimo”? Parliamone!...

domenica 10 febbraio 2013

Basta consigli saggi! (cèdesi càmice poco usato)

Tanto è inutile: avete mai provato a acquistare il regalo per vostro figlio o figlia insieme a lui/lei (o a ordinarlo su Amazon ma facendoglielo sapere come per esempio hanno fatto dei miei cari amici) qualche giorno prima del suo compleanno? È fisiologicamente possibile che lui/lei aspetti il giorno giusto senza pretendere di aprirlo e giocarci fin da subito?
E allora perché io, indossando l’abito dello zio saggio (non è un costume di carnevale, ma nella sostanza...), mi fisso nel dispensare consigli ben saggi ma che poi io stesso disattendo (predicare bene e razzolare male, dice l’adagio, purché almeno si ponga attenzione a non farlo sapere in giro!)?
Ebbene proprio da questo pulpito (in due occasioni: “Ti fa male un ginocchio? Cambiascarpe!... (con morale positivista e pragmatica)” e “Le sorpresenell'armadio e le scarpe da corsa (un paio di consigli da vecchio zio)”) avevo ribadito un consiglio che ritengo assolutamente valido: mai usare scarpe nuove per una lunga distanza, ma anzi, cominciare con qualche uscita da una decina di chilometri, in affiancamento al paio vecchio che usiamo per i lunghi del fine settiamana fino a che il piede (e tutto il corpo: caviglia, ginocchio,...) non si sia adattato alla nuova scarpa e a quel punto si effettuerà lo scambio: si comincia a usare le nuove per una ventina di chilometri mentre le vecchie si riposano con qualche uscita breve prima del pensionamento definitivo.
Detto fatto: con l’ultimo paio di scarpe che ho rinnovato ci ho fatto subito, zitto zitto, venti chilometri. E fin qui è sufficiente ipocritamente tacere.
Se però poi i compagni di corsa più intimi (esistono i compagni più intimi? In che senso? Magari ne parliamo un’altra volta) e per giunta miei attenti lettori si comprano il sabato pomeriggio un paio di scarpe nuove, e non la versione nuova del solito modello ma addirittura una marca diversa, e poi la domenica mattina le calzano per fare venticinque o financo trenta chilometri, allora posso fare festa, non ho più alcuna funzione educativa.
Ovviamente perché è andata loro dritta, e hanno avuto la fortuna di essere Cenerentola e non una delle perfide sorellastre altrimenti avrei potuto gongolare soddisfatto nella mia saggezza dispensando immaginari e bonari buffetti mentre si fossero lamentati per una galla qui o un dolorino lì. E invece nulla. Due su due. E se avessero controvertito la mia teoria, e il mio saggio consiglio fosse inutile e oltretutto tedioso?
Zitto zitto, però a me (a me!) una bella galla dopo soli venti chilometri era venuta...

La morale? Medice cura te ipsum! (e poi appendi il càmice...)

martedì 5 febbraio 2013

Assenza giustificata


È un piccolo evento che mi è tornato in mente durante una cena sabato scorso e l’ho raccontato perché secondo me rappresenta in modo netto una persona oltre che un insegnamento.

Prologo: un collega, compagno di corsa e, spero, amico, ha avuto un grave incidente occorsogli proprio mentre correva. Ha recuperato e dopo neanche un anno ha corso la sua seconda maratona. Insieme a altri colleghi e compagni di corsa, abbiamo preparato e condiviso le scorse maratone di Venezia e di Firenze.

L’evento: mesi fa stavamo discutendo di cosa sarebbe successo se uno non si fosse presentato alla partenza di una gara. Lui sosteneva che sarebbe stato, se non rimborsato, almeno compensato con l’iscrizione all’anno seguente.
Rimasi interdetto e poi sbottai: “Ma bisognerà dimostrare che era un motivo serio!”
E lui: “A me è successo... ero in coma!”
Rimasi zitto per qualche secondo puntando a terra poi lo guardai e, tranquillizzato dal suo sguardo sereno, sorrisi: “Eh, vabbè, allora!...”

Non si tratta di ridere di qualunque cosa, di sdrammatizzare a ogni costo, no, si tratta di dire semplicemente le cose chiamandole per nome e parlarne come si trattasse di fatti che riguardano una terza persona: non è anormale raccontare a qualcuno che un amico ha avuto un incidente e è finito in coma, a prescindere dal fatto che chi ne parla si senta dispiaciuto o no: si parla, si racconta. Normalmente. Si fanno anche le battute, magari con affetto. Ma parlando di una terza persona. Ecco: lui parlava di sé e di quell’incidente con la leggerezza di chi parla di qualcosa accaduto ad altri. Senza autocommiserazione, senza voler suscitare l’altrui compassione né scandalizzare, né soprattutto allontanare.
Ecco lui è così. Per me è come se mi insegnasse – senza certo intenzione – a essere semplice e onesto con me stesso e quindi con gli altri: pensare a me stesso con la stessa lucidità e distanza con cui penserei a un’altra persona.
Che poi io abbia imparato questa è un’altra storia.