Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

domenica 24 giugno 2012

Notturna da dimenticare (e non c'è culo che tenga)


La morale ve la dico subito: sarebbe meglio se la sera andassi a dormire anziché a correre.

Per fortuna tira un po' di vento, ho detto al via. Ed era vero: non faceva caldo e non era afoso. A stare fermi.
Per le prime centinaia di metri sono rimasto in piedi grazie poggiandomi alle schiene davanti a me e rimbalzando sui gomiti di chi mi stava di lato.
Dopo tre chilometri sono scoppiato e essendo pure da solo (nella folla) ho cominciato a rallentare.
Allora mi è venuto in mente di ricorrere, a mo’ di esperimento pseudo-scientifico, a quella risorsa cui ho accennato poche settimane fa a proposito della DJTen (DeeJayTen Firenze 2012 – Mi sono migliorato ma ho sbagliato tutto!) e su cui ho discettato in seguito (Corsa e culi (niente volgarità, siamo runners!)).

Qui sarebbe opportuno che Elena non leggesse.
Quindi stavo dicendo, oh, allora: non leggere! Allora fai te, io te l'ho detto.
Insomma, il primo culo mi ha passato in Borgo La Croce, gruppo podistico Le Panche, alta, abbronzata, passo disteso, lunghe gambe, forse tiene le spalle contratte, sembra quasi che abbia il collo corto, lascio che mi distanzi di qualche metro ma mi rendo conto che non le posso stare dietro. 
In piazza D’Azeglio mi passa un'altra ragazza, molto bassa, che corre tutta inclinata in avanti, come se stesse per tuffarsi, sollevando molto i talloni dietro. Mi ricorda che spostando un po' il busto in avanti potrei correre meglio, ma non c'è modo di resistere neanche a lei.
Al terzo, gruppo podistico Il Fiorino mi pare ma la luce stava calando, mi sono rassegnato: sarà anche questione di testa però non basta per spiegare tutto. Sono solo al quarto chilomentro e non ne posso già più, accarezzo anche l'idea di fermarmi però poi provo vergogna: tira via una maratona, ma fermarsi a una 10km sarebbe offensivo nei confronti dei compagni del gruppo. Passato il ponte alla Carraia ho definitivamente tirato i remi in barca. 
In Borgo San Frediano mi passa l’ennesima ragazza (ormai ho perso il conto) con pantaloncino da competizione, in pratica un costume da bagno: niente da fare, non riesco neppure dare il comando alle gambe: connessione non disponibile. Esperimento concluso. La morale? Non c’è culo che tenga: prima ci vogliono le mie gambe, e tutto quello che ci sta sopra.

Dell’altro esperimento, quello sull’alimentazione (Merenda prima della Notturna di San Giovanni (un dialogo zio-nipote e un esperimento)), non si può dire molto: la merenda non ha contribuito a una buona prestazione (che non c'è stata) ma non ho percepito un appesantimento o un fastidio specifico. Di certo non ho avuto fame, fine lì. Magari la prossima volta potrei fare a meno di mozzarella e melone.

Alla fine, oltre a essere stato superato anche da chi nel mio gruppo era partito, con maggiore umiltà, a velocità più controllata (Luigi mi ha solo sorriso dicendo, senza infierire, “strategia sbagliata!"), il Caro Nipote, partito dopo e arrivato dopo, ci ha messo 5" meno dello Zio Saggio. Il Caro Nipote che ha cominciato a correre da pochi mesi. 
Zio Saggio, vai a dormire la sera, che è meglio.

sabato 23 giugno 2012

Merenda prima della Notturna di San Giovanni (un dialogo zio-nipote e un esperimento)


Dialogo epistolare tra zio e nipote, venerdì pomeriggio:
Nipote: “Fai una meranda leggera domani pomeriggio verso le 16:30/17? ti prego non mi rimandare al tuo blog! SI o NO...”
Si vede che il nipote conosce profondamente lo zio, in particolare lo zio che tiene questo blog)
Zio: “Direi merenda sostanziosa: carboidrati+proteine.”
Notare la pacifica professionalità, nessuna polemica, lo zio risponde alla questione, focalizzato sulle esigenze del caro nipote.
Zio: “E più tardi: 17.30-18”
Anche qui riprende e corregge l’affermazione dubbiosa del caro nipote, senza sottolineare in alcun modo un’opposizione, anzi, inizia con un “e” come se fosse semplicemente un proseguo dell’affermazione precedente. Che psicologo, lo zio.
Zio: “3h per digerire ma non in tempo per avere di nuovo fame alle 21”
Non si accontenta l’esperto zio di ammannire un indicazione assiomatica al caro nipote, no, non sarebbe corretto, rientra nelle sue prerogative quella di essere didascalico, affinché il caro nipote apprenda l’insegnamento non a memoria come una poesiola alle elementari, ma ne possa far suo il ragionamento che ne sta alla base. Che sensibilità pedagogica, questo zio.
Zio: “Però vale la pena parlarne...”
Ecco lì, lo zio che il caro nipote aveva dato prova di conoscere a fondo: ora il runner-blogger avrà la giustificazione morale (o immorale) di scriverne sul suo blog. Astuto questo zio psicologo.

Sabato pomeriggio, ore 19 ho appena finito la mia merenda non leggera, dopo un altrettanto non leggero pisolo di un paio d’ore: avevo semplicemente bisogno  di recuperare, il pisolo non ha particolari fini propedeutici (o forse sì ma ne parliamo un’altra volta: la teoria dei pisoli, potrebbe essere il titolo).
Fatto sta che, non riuscendo a svegliarmi ho fatto merenda più tardi: 18.30-19. Giusto per la cronaca. È un esperimento, questo. Mi sento la pancia piuttosto piena. Ho evitato di stendermi di nuovo a leggere sul letto per cercare di digerire meglio, o almeno averne la sensazione, stando eretto o seduto.
Cosa ho mangiato:
  • 2 fette di pane integrale, leggermente tostate
  • 100g di bresaola
  • 50g di mozzarella
  • Un mezzo meloncino
  • Un’albicocca


Ammetto che avrei potuto fermarmi ai primi due punti e avrei ottemperato alle mie indicazioni facendo anche bella figura con il caro nipote. Il problema è che io adoro la mozzarella, per tacer del melone...
L’albicocca in onore del potassio. (Fulvio di solito in allenamento consiglia tre albicocche secche al giorno: mi domando ma un’albicocca secca ha gli stessi contenuti di minerali di una corrispondente albicocca fresca? A occhio direi di sì, però andrebbe approfondito)

Di sicuro la merenda non è stata leggera, è terminata 2 ore prima della gara. Più tardi mi concederò un caffè come da rituale consolidato (non scaramantico, io non ci credo però non si sa mai).
Appuntamento con i due nipoti alle 20.15 davanti alla Misericordia in piazza Duomo. Burp! Tra un po’ comincio la vestizione e parto. Vediamo come finisce l’esperimento.

sabato 16 giugno 2012

E perdermi, m’è dolce, in questi boschi – 6. Monte Morello: Da Villa Ginori ai Colli Alti

Asfalto e sterrato / salite e discese notevoli / circa 15 km (giro)

Grazie a Giovanni, da Brescia, ho cominciato a conoscere Monte Morello. Pur essendo fiorentino ricordo di aver visto le antenne da vicino solo passando in auto e di essere stato a pranzo al Ristorante il Vecciolino, ma l’ultima volta più di dieci anni fa. Di passeggiate o escursioni non se ne parla proprio. Questo quello che conoscevo di questo luogo.
Con le uscite in pausa pranzo ho saputo di aver lambito l’area in questione, soprattutto con il Giro del Pietrisco, ma si tratta sempre di un limite estremo, Monte Morello in sé resta fuori dalla portata delle nostre uscite prandiali.
Pertanto inizio una nuova sezione dedicata specificatamente a Monte Morello nella speranza di aggiungere in futuro ulteriori esplorazioni.
Stavolta ci siamo trovati al parcheggio della manifattura Ginori con il chiaro intento di far scoprire, a chi come me non sapesse neppure che esisteva, il bosco del parco di Villa Ginori e contestualmente la costa sottostante Monte Morello.
Si circonda l’ex-manifattura, oramai fitta lottizzazione, per via della Fabbrica, prendendo a destra per via del Tiglio per poi continuare a salire a sinistra per via di Doccia. Siamo davanti all’ingresso della villa. A quanto mi dice Giovanni, Villa Ginori è disabitata, eccezion fatta per il casiere che ha incontrato una sera mentre questi usciva da una porticina e, di fronte alla sua evidente curiosità, lo ha addirittura invitato a fare un breve giro guidato nel giardino.
Si sale costeggiando il muro che racchiude il parco fintantoché un enorme varco ci invita a oltrepassarlo. Intercettata una comoda carrabile ormai ridotta a poco più di un sentiero ne abbiamo seguiti i regolari tornanti che ci hanno fatto rapidamente salire per il bosco ombroso. La pendenza è ingegneristicamente costante e i tornati disegnati con cura.



Una improvvisa ferita del bosco, forse un tagliafuoco, ci dona la visione della piana di Sesto e del giardino della Villa giù in basso.
Si continua a salire fino a che all’ennesimo tornante Andrea, l’altro compagno di corsa,  attira la nostra attenzione alle vestigia di un acquedotto ormai abbandonato. Restano dei pozzetti aperti e una sorta di canale che scende verso la villa e le cui pareti di pietra sono ormai quasi mimetizzate dal sottobosco. Siamo in prossimità, ci dice, della Fonte Giallina. Proseguiamo lasciando l’esplorazione ulteriore a una venuta successiva. Non mi sentivo di turbare la pace fiabesca del bosco e delle sue fonti con una visita inattesa e, per giunta, tutto sudato.
Ormai è una mezz’ora che saliamo, siamo sempre nel bosco. Chiacchieriamo e scansiamo i sassi. Un fruscio alla mia destra e lo vedo, dalla coda ritta e gonfia deve essere un capriolo. Corre parallelo a noi. Ma lui corre davvero, e sparisce. Noi non ci possiamo permettere neppure di cambiare passo, onde evitare il rischio di fermarci.
“Quando ho voglia di distrarmi dopo il lavoro, nel tardo pomeriggio mi piace perdermi per questi sentieri”, dice Giovanni.
Io e Andrea rimaniamo in silenzio, a parte il fatto che di fiato da sprecare ne abbiamo poco, ormai sarà più di mezz’ora che stiamo salendo, intanto la carrozzabile è diventata sentiero, e poi (mi sento di accomunarlo al mio pensiero) non sappiamo che dire: se lui si diverte così!?!
A me sinceramente l’idea di inciampare su un sasso o una radice, ruzzolare nel caso che ciò avvenga in discesa, storcermi una caviglia o farmi male in genere, da solo, in un bosco su per Monte Morello mi spaventerebbe.
“È bello spuntare inaspettatamente in un luogo che conosci, scoprire nuove connessioni tra luoghi distinti... Tanto so che basta prendere una strada in discesa e male che vada torno giù a Sesto”, si giustifica Giovanni al nostro silenzio quanto meno scettico. “Sì, sì...”, acconsentiamo laconici.
Quando la vegetazione si dirada vediamo bene la Calvana lì accanto e davanti a noi le tre punte di Monte morello, tutte sopra i novecento metri. Quella a cui ci stiamo avvicinando, Monte Rotondo, non ne fa parte, è solo settecento metri. Noi siamo poco sotto i seicento e abbiamo nelle gambe circa cinquecento metri di dislivello.
Arrivati a via dei Colli alti, dopo l’ultima pettata asfaltata (in virtù di un agriturismo con una vista invidiabile), irrispettosa di tutta la fatica che avevamo fatto prima, abbiamo preso nel senso della discesa. La sensazione morbida dell’asfalto liscio sotto i piedi è stata sorprendente e molto piacevole. Chi è convinto che l’asfalto sia duro e fastidioso per legamenti e articolazioni dovrebbe approfondire l’argomento che rischia di essere un luogo comune.
Il bello di questo giro è che siccome non si può certo cercare la performance (già riuscire a non camminare in certi momenti era un successo) ci siamo potuti fermare in due o tre punti per ammirare il panorama e per avere ragguagli topografici. L’ultimo davanti alla carta dei sentieri in località Collina dove via di Gualdo diventa via delle Catese (subito prima della Bottega di Morello: non è colpa mia se conosco solo ristoranti...).
Invece di rientrare direttamente seguendo la strada, Giovanni ci ha fatto godere di una deviazione che si è rivelata piacevole, attraverso un oliveto e costeggiando un fitto boschetto, per poi riprendere via delle Catese che nel frattempo ha cambiato nome in via dei Molini, dopo esser passati appunto accanto a un ex-mulino lungo il torrente.
Dopo poco riconosco l’ex-manifattura Ginori. Siamo arrivati, meno male perché le gambe cominciavano a essere stanche.

Un bel giro davvero.



Ancora a proposito di corsa e culi (Un meta-post)

“Sai, - faccio soddisfatto, - sabato è solitamente un giorno in cui nessuno legge il mio blog, ma oggi già alla nove c’è stato un picco di accessi!”
“Ma allora è proprio vero, - ribatte piana Elena, - basta mettere un culo in copertina, per aumentare la tiratura, come l’Espresso o Panorama!...”
“Sono stato subdolo... peccato però che questo significhi che anche il runner funziona come il lettore medio, la stessa psicologia...”
“E che ti aspettavi? Io credevo peggio!...”
Non rispondo, non c’è risposta al disprezzo preconcetto.
Ammetto che ero assai dubbioso nel pubblicare il precedente post Corsa e culi, mi vergognavo, non in quanto autore immaginario dello scritto, ma come autore fisico, conosciuto direttamente da molti dei venticinque lettori.
Si ritorna lì, all’autocensura che scatta inconsciamente. Però poi il senso dell’onestà ha prevalso e ho premuto “pubblica”, ho spento tutto e sono fieramente scappato a nascondermi.
La seconda considerazione è di carattere morale: mostrando tre fotografie di culi femminili ho sfacciatamente dimostrato scarsa sensibilità per le lettrici e per i lettori gay. Pertanto corro ai ripari. E, non sapendo su cosa le lettrici e i lettori gay concentrino la loro attenzione mentre corrono, faccio una panoramica. Anche se temo che, da un punto di vista puramente estetico le runner ne escano meglio. Sarò di parte.
Secondo me il runner classico non è un granché, tende a smagrire e a avere le spallucce e anche il culo certo non è emergente.








Chi mantiene una proporzione apprezzabile tra le varie parti del corpo è il triatleta, bello sforzo, direte voi, mica corre e basta. Sì, ma si potrà avere pure degli esempi a cui ispirarsi!
E con questa ultima considerazione mi sono sicuramente meritato la disapprovazione totale di mia moglie: “non c’è più niente da fare, ormai sei diventato gay!” sentenzia rassegnata quando mi coglie ammirato di fronte a un atleta come Daniel Fontana...
Ho poco da replicare che sono un esteta e che non riesco a non apprezzare la bellezza, sia essa femminile che maschile. Lei continua a scuotere la testa.

PS: basta culi in copertina. Lo prometto!

mercoledì 13 giugno 2012

Morte di un Garmin viaggiatore (Il Garmin è morto, evviva il Garmin!)

Poche parole e neppure tanto commosse. Però è un pezzo di me che se ne va. Come quando si devono abbandonare le scarpe da corsa con cui stavamo oramai troppo comodi, da sembrar pantofole.
Da Campese a Giglio Castello al sorger del sole, lungo la Marsa a Tunisi, sull’Alpe di Siusi (senza i kenyoti), nell parco del Valentino, tutto il Canal Saint Martin fin oltre la Villette, il Cairo, Hyde Park,... ne ha viste di belle il buon Garmin Forerunner 405.
Ha segnato la mia liberazione dai percorsi fissati dalla misurazione con lo scooter e poi da Google Earth.
Mi ha fatto sentire più sicuro, era come se qualcuno sapesse sempre dov’ero, e mi figuravo un dio bonario che lassù, di sottecchi, come se non ci badasse, mi controllava mentre io vagando al tramonto lungo il mare salutavo dei bambini che giocavano a calcio in ciabatte nel quartiere di Gargarish a Tripoli.
Era un po’ di tempo, mesi, da prima dell’ultima maratona di Firenze, che il tasto start/stop restava incantato di tanto in tanto, ma io temporeggiavo, avevo cercato l’indirizzo dell’assistenza, ci ero andato ma avevo trovato chiuso, insomma non volevo separarmene, chissà quanto tempo poi me lo tenevano. Dopo che nelle ultime due uscite si è perso il ricordo di vari sudati chilometri mi sono deciso. Stavolta all’assistenza ci sono stato e il nerd dalla lunga coda mi cortesemente diagnosticato venti giorni di separazione e circa centocinquanta euro di spesa: “non riparano niente, sostituiscono tutta la parte interna” mi ha sorriso sconsolato.
“Allora se me lo devo ricomprare me lo ricompro nuovo ma prima voglio fare un tentativo per vedere se è un falso problema e magari basta poco”, gli ho risposto salutandolo.
Sei micro-viti a brugola. C’erano anche i trabocchetti delle piramidi dei faraoni ma non ci sono cascato: se aprivo bruscamente si sarebbero sconnessi dei cavetti piuttosto tesi... Aperto e richiuso. Era evidente solo quello che sapevo: la molla del tasto era “scarica”. Poi l’ultimo tentativo irrazionale: se si blocca il tasto, magari basta allargargli un po’ il passaggio... Dopo qualche manovra maldestra il tasto giaceva sperso sul palmo della mia mano.

Stanotte mentre Elena era già a letto, furtivo e con la coscienza momentaneamente non disponibile, ho selezionato i modelli Garmin che mi sembravano bastevoli, ho confrontato i vari prezzi e ho premuto non senza un tremito il tasto ACQUISTA ORA. Un Forerunner 910XT con fascia cardio è in arrivo. Il Garmin è morto, evviva il Garmin.

PS: che inconsciamente mi stia preparando per il triatlon?...

venerdì 8 giugno 2012

Corsa e culi (niente volgarità, siamo runners!)

Ho realizzato che almeno un paio di volte, nelle mie extravaganze sulla corsa, mi è capitato di menzionare il termine culo. 
Non penso di essere una persona volgare e so che le parole sono importanti ma in determinate circostanze, proprio perché le parole sono importanti, non usarle ricorrendo consciamente o inconsciamente a sinominimi edulcorati equivale a tradire. Tradire la scrittura, tradire la fiducia di chi mi legge: quello che scrivo deve essere vero, non tanto nel senso di realistico o veritiero, ma verace, sincero, onesto. Ecco la parola giusta è “onesto”. E se riesco a scrivere di quello che penso o vedo mentre corro, deve essere “onestamente” quello che penso o vedo, al massimo che le mie capacità mnemoniche e linguistiche mi permettono. E se vi raccontassi che, disfatto dalla fatica, con il sudore che mi cola sugli occhi, soffermo la  mia attenzione su un sedere dalla forma aggraziata e dall’apparente consistenza marmorea, approverei se smetteste di leggere. A meno che chi scriva non abbia chiari intenti ironici, perché leggere qualcuno che si autocensura? E se lo fa su questo particolare dove risulta evidente, su tutto il resto a cui non ho fatto caso, quante volte avrà manipolato la realtà dei fatti o dei pensieri che mi ha spacciato per sinceri e “veri”?
Sì, perché in entrambe quelle due occorrenze non si trattava di esclamazioni (tipo: che culo!) bensì di inquadrature di culi femminili.
Un paio di volte sono sufficienti per non considerarle casuali ma non sono neppure da denuncia: sono intimamente convinto di non essere un maniaco. Sperando di non essere smentito.
Che sia sessista? Non credo, solo sessuato scrittore (o scrivente). Non me ne vogliano le eventuali lettrici (eventuali in quanto lettrici, non in quanto di genere femminile) sicuramente – spero – anche voi avrete qualcosa su cui vi fissate mentre correte (e sarebbe interessante se lo condivideste).
Sto forse affermando la mia totale libertà nello scrivere? Magari! Vorrei non essere controllato o represso ma di sicuro lo sono perché per scrivere la parola culo e non cancellarla, faccio davvero uno sforzo. Anche adesso.

La morale di questa deviazione (in tutti i sensi)? che pensiamo sempre a quello anche quando corriamo? Boh, mi piace pensare di no. Ognuno di noi è come è. La corsa non lo altera più di tanto (a parte la stanchezza per lo sforzo), lo rende forse più sano e gli concede del tempo per osservare, pensare, riflettere. Del tempo per se stesso insomma.

Una preghiera alle runners: non siate pudiche, non mettetevi il golfino in vita, steso dietro in modo da coprire la suddetta parte innominabile (ironica e gentile moderatezza, non autocensura). Non sapete che delusione, che frustrazione ci state infliggendo. E non mi dite che il golfino serve per non prendere freddo quando terminate la corsa, non ricordo di aver visto un uomo con il golfino in vita (al limite vedo uomini vestiti troppo, sia d’inverno che d’estate, ma questo è un altro discorso, e prima o poi ci tornerò su).
Non vi vergognate, lo so che siete delle perfezioniste, in fatto di estetica: anche se aveste un sedere perfetto ci trovereste comunque una lieve imperfezione che vi preverrebbe dal mostrarlo coram populo.
Non c’è da vergognarsi in ogni caso: se è bello non c’è niente da dire, se è normale non scatenerà ammirazioni ma certo non avrà dato fastidio, anzi avrà distratto per un po’ lo stanco runner che avete incrociato. Se è onestamente fuori forma (in senso lato) chi lo vuol guardare lo guarda, chi non lo vuol guardare non lo guarda: di certo non rimarrà offeso e in ogni caso si sarà comunque distratto. Sì, ma la vergogna la sento lo stesso, dirai tu donna-runner. E che te frega, che t’importa? Tanto manco lo conosci quel runner che hai incrociato: sii fiera, piuttosto, di averlo aiutato, sì perché lo hai aiutato anche se lui neppure se ne è reso conto, distraendolo dalla fatica anche solo per pochi istanti. Hai fatto del bene al tuo prossimo senza nessuno sforzo aggiuntivo, se riesci a dimenticare la vergogna: oltretutto se riesci a cancellare quella sensazione di vergogna vivi meglio anche tu e quindi sarebbe un successo su tutta la linea!





Nota: per gli amanti dei quiz con la risposta (io non sopporto di essere lasciato con il dubbio): tranquilli, vi rimando a due post in particolare:

mercoledì 6 giugno 2012

Ancora sulla DeeJay Ten? Basta! (Solo per la maglia, un racconto)

Sono fiero di segnalare ai miei venticinque lettori un racconto in Storie di Corsa su Training Consultant di Fulvio Massini: "Solo per la maglia" di Emanuele Bartoli.
Condensa forse l'opinione di molti podisti a proposito della DeeJay Ten. Non è positiva ma non è questo l'importante!
Buona lettura.

PS: vi incoraggio a inviare vostre composizioni per eventuale pubblicazione (le istruzioni le trovate sul sito di Fulvio nell'apposita pagina).

domenica 3 giugno 2012

5.1 Fiesole – Vincigliata (una paura e due nipoti ringamboni)

Asfalto / saliscendi (350m di dislivello) / circa 15 km (giro)

Prima regolo i conti con i due nipoti (uno naturale e uno acquisito) ringamboni: glielo avevo promesso. Avevo proposto loro un bel giro per una domenica mattina: Fiesole – Vincigliata – Ponte a Mensola e rientro. Partenza e arrivo a loro scelta in base alla distanza che si sentivano di fare. Venerdì a distanza di 4 minuti mi arrivano due email, dall’uno e dall’altro, con cui entrambi, per motivi vari, declinano. Ho pertanto risposto affermando che avrei fatto lo splendido giro da solo approfittandone per buttare giù un racconto su due nipoti ringamboni... Mi fermo qui (per adesso).
Veniamo ora allo splendido giro. Peraltro mentre lo stavo correndo mi sono reso conto che è sostanzialmente il percorso della Firenze-Fiesole-Firenze che si corre solitamente la prima domenica di dicembre. Solo che facendo la gara avevo visto un decimo di quello che ho ammirato stamani.
Iniziamo la descrizione da piazza Edison. All’inizio la pendenza è dolce, largo tornante alberato e siamo a Camerata, la strada si spiana ed ecco San Domenico. Fin qui tutto bene.
Dopo la chiesa la salita si fa più seria, inoltre non c’è marciapiede, da nessun lato pertanto bisogna fare attenzione. Il mio prossimo punto di riferimento è il tornante al bivio con via Benedetto da Maiano con la vecchia pubblicità “PENSIONE BENCISTÀ aperitivi, terrazza”.
La variante masochista (già descritta in Firenze – Fiesole (leccandosi anche ledita)) prevedeva fare un tratto di viale Righi e salire poi per via del Salviatino, spuntando appunto qui. La distanza percorsa da piazza Edison sarebbe stata la stessa ma la salita sarebbe stata più corta di circa un chilometro. Dipende se vi sentite più o meno eroici.
Dal tornante la salita prosegue insistente fino alla pettatina in curva per spuntare su piazza Mino da Fiesole. Si ti tira di lungo (invece di soffermarci a curiosare nell’immancabile mercatino che stanno finendo di allestire). La salita non è finita. Fino al bivio per Vincigliata il percorso è lo stesso già descritto.
Riprendiamo da qui. Si prende a destra via di Vincigliata, seguendo le indicazioni per Vincigliata / Montebeni. Qui si tocca il punto più alto del giro: 400m slm. Si prosegue con un saliscendi fino a Villa Peyron, Villa Bosco di Fontelucente, per la precisione, con lo splendido giardino e il laghetto. Questo è un altro gioiello da non perdere ma conviene informarsi prima di andarci non è ovvio trovarla aperta.
Passando e mirando il panorama che si gode dalla villa ho avuto una illuminazione i Peyron (padre e figlio) che avevano individuato quella locazione per erigere la loro dimora oltre che amanti di Firenze, molto ricchi, cripto-massoni, erano anche in contatto con gli alieni: da lì si vede di filata una linea verde che taglia la città fino a incrociare perpendicolarmente l’altra linea verde che è l’Arno. Si tratta del torrente Affrico, oggi coperto, costeggiato di alberi e che separa nettamente un magma bianco e rosso. Elena poi mi ha fatto notare che non taglia la città, perché è piuttosto periferica (effettivamente è fuori dai viali). Certo ho prontamente ribatutto, ma divide la città che si vede da lassù. Ovviamente ho avuto una visione astorica oltre che cretina: quando il Peyron padre ha acquistato il luogo l’Affrico divideva ben poco, lì era quasi tutto campagna...

La strada è facile, solo un’attenzione: al bivio Montebeni/Settignano a sinistra e Vincigliata a destra, tenere la destra.



















Si scende in modo deciso con impegnativi tornanti nel bosco.
Improvvisamente sembra di essere in un pieno medioevo con il tipico castello con le mura merlate e il camminatoio, i posti di guardia protetti, il mastio, la torre. Si gira per tre quarti intorno al castello di Vincigliata, ovviamente immaginifica ricostruzione di fine ottocento.

















Si torna nella realtà urbana (o quasi) a Ponte a Mensola. Anche qui un gioiello, della cucina tradizionale fiorentina: Trattoria da Osvaldo. Quando mi capita di tornarci sono felice.
Si segue via D’Annunzio e siamo di nuovo all’Affrico e a Campo di Marte: da qui ognuno può tornare al suo punto di partenza. Il giro tornando per viale Righi a piazza Edison conta circa 15km.

Prima di concludere: nel titolo ho menzionato una paura.
Da venerdì, dopo aver realizzato che sarei stato da solo, ho cominciato a percepire un fastidio, un’incertezza, una sorta di paura.
Di che? Di non farcela. Di non farcela? Non era certo una maratona, e non andavo nel deserto. Di farmi male in discesa dove passano poche persone soprattutto la domenica alle otto? No, soprattutto di non farcela e di dovermi fermare e proseguire a piedi.
C'è un  precedente. È successo, due anni fa, proprio con i primi caldi, era un sabato pomeriggio, aspettai fino alle 6 di pomeriggio e poi partii in direzione dei Renai con l’idea di fare 24km. Poi arrotondato conservativamente a 20, finché al ponte dell’autostrada sono tornato indietro accontentandomi di almeno 14km. Alla stazione delle Piagge dopo appena 8km mi fermo stupito. Era come se il motore si fosse spento inspiegabilmente e non ne volesse sapere di ripartire. Sconsolato e indispettito di ritrovarmi a piedi a circa 6km da casa, telefono a Elena sperando che si offra di venirmi a prendere. Invece mi consiglia di chiamare un taxi. Cosa che faccio senza risultato: nessuna delle due cooperative cittadine ha una vettura disponibile. Richiamo Elena che stavolta mi suggerisce di arrivare a una via vicina dove avrei potuto prendere un comodo autobus che mi avrebbe portato fino a casa. Mesto per la defaillance e nudo come un bruco (vabbè in pantaloncini e maglietta, sudato, ma vi assicuro che salire su un autobus che porta gli adolescenti in centro un sabato prima di cena non è granché come situazione). E in più non avevo il biglietto, ovviamente (tutto chiuso nei paraggi e non si poteva comprare a bordo allora). Me ne sto guardingo a ogni fermata, pronto a scendere: ci manca pure di essere intercettato dal controllore per completare la serata. A due fermate dalla mia, le porte si chiudono e ben due controllori spuntati dal nulla cominciano i controlli. Io sono già davanti alla porta (chiusa), due semafori verdi ed ecco la fermata: scendo in scioltezza e proseguo a piede per le ultime centinaia di metri felice di essere di nuovo a terra. Mi ci vollero mesi per riprendermi da quella umiliazione, non tanto dell’autobus, quanto dell’essermi fermato dopo neppure dieci chilometri per un motivo imprecisato: il primo caldo, come dicono gli anziani, mi parve la spiegazione migliore: non sopporto il caldo e effettivamente era stato inaspettatamente caldo e anche alle sei, sette di pomeriggio il sole era fastidioso e l’aria afosa. 
Poi c’è stata la crisi alla maratona di Roma quest’anno...  
Con questa sensazione sono uscito stamani, fiero anche di affrontare questa sfida intima. E il momento critico non è stato la salita ma i chilometri (in pianura) finali: ero stanco (della salita e della discesa), ho rallentato ma ce l’ho fatta. Ma perché non avrei dovuta farcela, mi chiedo. Boh. La paura era lì.

PS: Due parole più eque sui due nipoti: l’”acquisito” mi ha affiancato, supportandomi e sopportandomi, in ben tre preparazioni per la maratona, il “naturale” si è appena affacciato al mondo della corsa e a occhio è promettente: non si meritavano la vendetta ma è stato più forte di me...