Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

domenica 11 ottobre 2015

Breakfast overrated? Not at all! (La colazione prima del lunghissimo: una dolorosa riflessione)

Se dicessi che la colazione è sopravvalutata, lo so già che molti di voi, se non tutti, storcererebbero la bocca, anzi la state già storcendo, guardate che poi vi rimane la bocca storta! O almeno così mi diceva la mamma da piccolo.

Tutto è cominciato davanti alla macchinetta del caffè l’anno scorso, chiacchierando con un ultra-runner inflessibile e espressione massima di understatement. Mentre io ammettevo, a maratona fatta (e fatta male) che il mio problema continuava a essere la crisi del 30° (o addirittura del 25° se allenato poco) chilometro, quando chiaramente accadeva qualcosa di irreversibile nel mio fisico. Oramai è conoscenza comune che si tratti del cambio di combustibile da un mix a predominio di glicogeno a un mix di quasi soli grassi allorquando la scorta di glicogeno si è esaurita (e ci sono calcoli abbastanza ragionevoli per calcolare quanto glicogeno si può accumulare in base al proprio fisico e quanti chilometri sono necessari per esaurirlo, guarda caso comunque intorno al trentesimo chilometro).
Il trucco sarebbe quello di abituare il proprio fisico a consumare un mix di glicogeno e grassi fin da subito in modo da consumare più lentamenti il primo e quindi posticiparne l’esaurimento.
Sì perché l’altro trucco di fare dei rabbocchi in corsa non dà risultati garantiti, dipendendo dai tempi di assimilazione da parte del nostro fisico, e comunque l’apporto energetico aggiunto è molto limitato rispetto alle necessità in corsa (in base ovviamente alla nostra corporatura).
Allora davanti alla macchinetta del caffè il “maestro”, lo chiamo così scherzosamente ma è una stima reale, mi dice: dovresti allenarti prima, durante i lunghi: non fai colazione e ceni leggero la sera prima...
Io sgranai gli occhi ma il ragionamento mi sembrò logico: l’esercizio non pretende di abbattere il muro, anzi cerca di attrarlo a me, per incontrarlo prima e imparare a conoscerlo, non garantirsi un gran vantaggio con colazione abbondante né cercare di allontanarlo con palliativi (gel).

Mesi dopo...
La prima prova con un 25km. Poi la conferma con un 28km. La fame non si avverte, se non un accenno, in un qualche momento tra il quindicesimo e il ventesimo chilometro, che però sparisce presto. Nessun calo se non, come per me abituale, quello fisiologico negli ultimi chilometri, quelli eccedenti il lungo precedente, nel caso di un 28km se la domenica prima ne avevo fatti 25, è quasi matematico che al ventiseiesimo chilomentro rallento senza quasi accorgermene.
È allora che la presunzione ha preso corpo e ho cominciato a vantarmi con gli amici: io faccio i lunghi senza mangiare né prima né durante...
Quando poi programmo trenta chilometri e dopo venti mi si spengono tutte le lucine e mi trovo a procedere a andatura lenta per altri dieci chilomentri e mi rifiuto di estrarre il gel che mi sono portato dietro per sicurezza, come conforto psicologico, non si sa mai, potrei fermarmi in aperta campagna quando finisce la benzina, dimostro che la mente è forte e mi fa resistere (il gel resta nel taschino) mentre la carne, come nei più triti luoghi comuni, è debole e si conferma tale. Spero soltanto che questi dieci chilometri di passione, la vibrazione del Garmin al termine di ogni chilometro cos’è se non la successiva stazione di una laica via crucis, testimonianza della sofferenza passata e presente e occasione di sollievo perché la fine si sta avvicinando, spero soltanto - dicevo - che questi dieci chilometri di passione siano serviti al mio corpo per abituarsi a funzionare con il combustibile più scarso, una volta che il buon glicogeno è terminato. Però se per bruciare grassi devo andare a un passo che non ha niente a che vedere con quello che stavo tenendo solo un attimo prima e finisco superato da chi fa jogging domenicale alle Cascine, senza offesa a chi fa jogging domenicale alle Cascine, forse l’allenamento non è stato così utile...

Dopo due settimane un altro trenta: stavolta ceno con abbondanza di carboidrati e proteine, a colazione, sebbene non abbia fame, ingurgito due fette di pane tostate con 50g di bresaola conditi con un filo d’olio e arricchiti da scaglie di parmigiano, il tutto fluidificato da una caffè lungo e un succo d’arancia mischiato a Pre-gara Ethicsport. E parto. Verso il diciottesimo chilometro mi succhio un gel enervit (anche stavolta senza sentirne alcun bisogno). Ai venti chilometri annuncio a Filippo e Ema: su, l’allenamento comincia adesso! Perché scuotono la testa? Poi verso il venticinquesimo chilometro vediamo in lontananza un famigerato cavalcavia: vedi Filippo quel cavalcavia? L’allenamento vero comincia lì! Con la coda dell’occhio vedo ancora teste che ruotano da destra a sinistra e viceversa.
Quando però all’inizio della salita breve ma brusca ho sentito l’energia di forzare l’andatura e poi dopo la discesa riesco a mantenere un passo più sostenuto ho capito che qualcosa era cambiato.
Certo in queste due ultime settimane mi sono ulteriormente allenato ma la questione era più interiore: non lo so se la sofferenza precedente mi abbia aiutato a guadagnare autonomia comunque mi piace pensare di sì, in ogni caso per un allenamento serio l’alimentazione è fondamentale.

La morale: mi veniva da dire che capisci quanto sia importante qualcosa solo quando ti manca e poi la ottieni di nuovo, però non volevo essere sentenzioso. D’altra parte di parla solo di corsa.


Riferimenti 
Una summa sui post sull’alimentazione prima della maratona la trovate in:
Mentre della mezzamaratona ho parlato in:


giovedì 8 ottobre 2015

Il runner-gagà ma senza le ghette (ancora sul correre con la pioggia)

Prendo spunto da un commento di una lettrice a un post sul correre con la pioggia (Sotto la pioggia (con un trucco stupido che non è un trucco))che mi chiedeva dell’esistenza di copriscarpe impermeabili. Immagino che questa curiosità sia nata dalla considerevole acquata che molti di noi che correvamo a Firenze (ma non solo) si sono presi la scorsa domenica mattina.
Ammetto che non mi ero mai posto il problema ma questa domanda mi ha fatto venire in mente l’inconveniente riscontrato da Gigi sempre domenica mattina: un fastidio dentro la scarpa che cercava di risolvere invano tirando ben bene il calzino: a fine allenamento si è reso conto che non era il calzino la causa bensì addirittura la soletta che, oramai completamente molle, si era arricciata...

Tornando dunque alle ghette, a me veniva in mente solo quegli oggetti che servono a coprire completamente scarpa e caviglia usati da chi corre nel deserto, oppure quelle per i ciclisti che però hanno un uso limitato del piede.
Facendo una piccola ricerca in rete (Parole chiave utilizzate: spats, gaiters, shoe covers) mi sono reso conto che ci sono problematiche simili per chi fa trail, con rami e sassi che imprescrutabilmente si ostinano a voler entrare nelle scarpe di chi corre. Però in questo caso non aiutano a non inzuppare la scarpa e dunque il piede perché si limitano a sigillare la caviglia con la scarpa, e anche se fossero impermeabili tutta l’acqua che arriva dal suolo tramite schizzi e pozze passerebbe comunque tramite la scarpa. A meno di avere scarpe in goretex. A questo riguardo mi ricordo di aver verificato un inconveniente pure peggiore: una volta riempite di acqua (mai messo un piede in una pozzanghera?) le scarpe in goretex restano piene, mentre le normali scarpe da corsa perlomeno si svuotano...
Ho anche trovato menzione di ghette (Shark) che promettono di farti correre anche nell’acqua senza problemi ma le informazioni tecniche sono minime e insoddisfacenti, anche le foto non sembrano relative a scarpe da running ma più da ciclismo. Sospendo il giudizio.
Mi sono imbattuto in vari forum sul tema ma senza soluzioni interessanti: c’è chi suggerisce di usare delle normali cuffie da doccia, di quelle che si trovano in albergo, per farci delle ghette... vabbè, allora va bene tutto ma noi stavamo pensando a qualcosa che non disturbi la corsa in sé altrimenti basta mettersi delle galosce e siamo tutti contenti.

Conclusione: a meno che qualcuno non trovi (e provi) una soluzione valida io continuo a correre con le scarpe normali (non in goretex) e con calzini sottili in modo da ridurre al minimo l’acqua che può essere trattenuta.


La morale: io sono solito abbinare maglietta e calzini, mentre i pantaloncini possono andare a contrasto. Se rinuncio alle ghette, sia pure a malincuore, resto un runner-gagà?

mercoledì 23 settembre 2015

La bella irrequietezza (me lo ha detto il dottore!)

C’è voluta una mezz’ora di chiacchiere per colmare alla bell’e meglio un vuoto di dieci anni, da quando ci eravamo conosciuti e frequentati, anche con una certa intimità (io dormivo ma lui si era insinuato nella mia spalla sinistra). Si ricordava, il dottor N., della copia del romanzetto che gli avevo regalato alla fine della rieducazione, da allora si era messo a scrivere anche lui, e di questa sua nuova vita mi ha raccontato, di un romanzo iniziato con entusiasmo ma non ancora terminato, di racconti spuntati mentre vagava in compagnia del suo cane, sta aspettando di averne almeno dodici (perché proprio dodici? Eh, sa, io avrei voluto fare il musicista...), dei racconti non ancora scritti sul suo mondo, quello dell’ospedale, della sua passione per i “pazienti difficili”, che non sono quelli tecnicamente difficili – mi spiega – ma quelli la cui vita è resa estremamente difficile dalla malattia e che quando arrivano da lui hanno una o al massimo due cartucce da sparare prima di abbandonare le speranze.
Alla fine gli descrivo cosa mi è accaduto alla spalla destra. Mi manipola e prova l’arto in questione, poi si risiede e, con la sua solita pacatezza e serenità, mi suggerisce di aspettare tre mesi in modo da considerare guarita la spalla: se avrò ancora sensazioni anomale o paure procederemo a una risonanza magnetica e poi si vedrà se c’è da fare qualcosa.
Terminato il consulto, come se avesse notato solo ora un dettaglio, mi chiede: “Ma lei nuota?”
“Veramente dall’ultima volta che si siamo visti ho cominciato a correre e poi ho corso, e corso, e corso. Fino a un paio di maratone all’anno. Solo che ultimamente ho aggiunto anche il nuoto e la bici”.
“Tutto in pausa pranzo, s’intende, e nel fine settimana”, aggiungo, quasi a giustificarmi.
Lui mi guarda sorridente, sembra scuotere la testa mentre si accarezza la mandibola con la mano sinistra: “Che bella irrequietezza!”
Sorrido incerto.
Ci alziamo e ci salutiamo con una stretta di mano. Sulla porta gli ricordo che abitiamo a pochi isolati di distanza nello stesso quartiere, ma non ci siamo mai incontrati fuori dall’ospedale.
Mentre salgo le scale mi sento bene: non solo sono sollevato per la questione della spalla, sento che c’è qualcosa di più, sono contento di averlo incontrato, sentivo che i timori sulla spalla erano quasi un pretesto per vederlo di nuovo, adesso lo so con certezza.

La morale? Cominciavo a arrendermi al fatto che la mia fosse solo una strenua ancorché vana resistenza alla strisciante e inarrestabile decadenza fisica.

Poi lo dico a Elena: non sto invecchiando, sono solo irrequieto.  Me l’ha detto il dottore.

sabato 27 giugno 2015

Monsieur Spitzweg s’échappe (sorsata di birra che continua a non convincermi)

È un racconto di una trentina di pagine, l’ho trovato incluso in una racconta di tre racconti che hanno lo stesso protagonista un certo Monsieur Spitzweg. Stavo per scrivere un certo noioso Monsieur Spitzweg e mi sono trattenuto poi ho pensato che mi ero trattenuto e che se l’avevo pensato un motivo ci sarà stato e quindi l’ho scritto. Ora dovrei motivarne la ragione, del noioso, intendo.
Alcuni di voi si ricorderanno “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita” (1998) che fece conoscere Delerm anche qui da noi, un classico tormentone, il libro carino che si legge d’un fiato, una prosa poetica che piace al palato, di facile beva, come dicono i sommelier a sottintendere che poi resterà ben poco da ricordare di quel vino.
Ho cercato di dimenticarmi questo precedente e di leggere questo racconto in quanto racconto sulla corsa. Effettivamente si tratta di un racconto che parla della corsa sebbene e lo stile dell’autore e il personaggi descritti mi facciano pensare di leggere un romanzo di fine ottocento. Però facendoci attenzione le vicende si svolgono oggigiorno e quindi la sensazione è di osservare attraverso una foschia che dona un’aura antica a tutto quanto viene narrato.
In breve sintesi questo Spitzweg, scapolo, impiegato alle poste, per rimettersi in sesto riesuma dell’abbigliamento sportivo di epoca giovanile e, comprate delle scarpe da running in un negozio specializzato (unico momento incontestabilmente contemporaneo), si mette a correre. Finché qualcuno non gli butta lì, come succede a chiunque cominci a correre: a quando la prima maratona? Al che dopo un primo recalcitrare, come succede a chiunque continui a correre, l’idea non sembra più tanto peregrina. Spitzweg si pone come obbiettivo, come succede a chiunque si decida correre la prima maratona, di portare a compimento la maratona della sua città, in questo caso Parigi. Si prepara e la corre. Senza tanti fronzoli: per dare un’idea il racconto della gara in sé occupa esattamente due pagine. Non mi lamento: l’autore dà prova di non voler sfracassare i cabbasisi dei lettori con cronache dettagliate. D’altronde il racconto è breve.
Quattr’ore, due minuti e trentasette secondi, il risultato del nostro: un tempo peraltro onesto per una prima maratona anche se, cammin facendo, il nostro si era posto come obbiettivo di stare entro le quattro ore, obbiettivo che non si capisce bene da dove nasca se non dalla rotondità del numero, che basterebbe cambiare unità di misura del tempo e non avrebbe più alcun senso.
Comunque dopo l’impresa l’interesse per la corsa si affievolisce e, come succede talvolta a chi corre una maratona, non ci sarà una seconda volta: non vuole essere vittima di una fissazione e si rende conto (e qui il passaggio mi pare molto rapido e poco sostanziato) che stava solo lottando contro il tempo e che questa lotta non può essere puramente atletica (boh).
Pertanto decide che deve meditare e, presa una settimana di ferie, se ne va in un’abbazia benedettina in Normandia. Terminata la soddisfacente e silenziosa settimana gli basta scambiare due parole con un monaco al negozio dei ricordini per decretare che anche questo mondo è contraddittorio e quindi se ne torna al suo tranquillo tran-tran tutto soddisfatto.
La morale: non esageriamo con il movimento né con il pensamento.
Boh. Diciamo che, sebbene la medietà possa essere un ragionevole ideale, mi pare che qui l’autore faccia un racconto a tesi, in cui vuole dimostrare qualcosa ma si scorda qualche saggio imperativo della narrazione (show, don’t tell) e spera di cavarsela spruzzando qua e là della foschia anticante.
Anche questa sorsata di birra mi ha lasciato un retrogusto troppo amaro: non mi ha convinto neppure la seconda volta. Non ce ne sarà una terza, Monsieur Delerm.

Monsieur Spitzwed s’echappe
(nella raccolta « Monsieur Spitzweg »)
Philippe Delerm
Mercure del France
1998

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domenica 14 giugno 2015

Pacco, doppio pacco e contropaccotto (non ci sono più i nipoti di una volta)

Partiamo dall’inizio e dai mezzi di comunicazione che come vedremo hanno giocato un ruolo non secondario in questa piccola ma curiosa vicenda.

A inizio anno Filippo espresse il proposito di partecipare alla sua prima maratona in autunno e mi chiese una mano nel prepararla. Entusiasta e quasi paternamente (ziisticamente non mi pare che esista) commosso dalla richiesta accettai e anzi proposi di partire da una mezzamaratona in primavera (e anche quella sarebbe stata la sua “prima volta”) a cui poi sarebbe seguita la maratona in autunno. Anche Ema aderì immediatamente (fatto salvo il diritto al ringambo, di cui si merita il titolo di maestro emerito, del quale vedremo alcuni risvolti nella vicenda di cui prima o poi arriverò a parlare). A quel punto formai un gruppo in Whatsapp, “Correre in Famiglia”, che sarebbe stato il canale di comunicazione per fissare ritrovi, scambiare programmi, condividere pensieri e considerazioni. Anche questo particolare è pertinente.
La mezzamaratona primaverile è stata portata a termine ma, come molti di coloro che corrono abitualmente possono immaginare con facilità, gli infortuni hanno frastagliato gli allenamenti, a rotazione, dei vari membri del gruppo, e oggi sarebbe stata la prima occasione, da quasi due mesi, per correre nuovamente tutti e tre insieme.
Per aumentare le variabili in gioco, si era aggiunto Gigi di ritorno da una vacanza in Giappone e che, nonostante bronchite, aerosol e antibiotici, era disponibile a qualunque corsa avessimo programmato.
Quindi da tre o quattro giorni avevo cominciato a programmare questa uscita comunicando con gli uni e con l’altro tramite Whatsapp: scambi di gruppo con Ema e Filippo e individuali con Gigi. Altro dettaglio da tenere a mente.
Mentre Filippo aveva imposto la domenica mattina ma era incerto sull’orario, Ema aveva cominciato a frapporre non meglio identificati impedimenti, ma dicendosi disponibile, nel caso in cui avesse potuto, ad aggregarsi dove e quando avessimo fissato. L’arte del rimgambo: non potevi rinfacciargli che rinunciava dato che in principio lui non aveva rinunciato, anzi aveva espresso tutta l’intenzione di partecipare, purché gli impegni  glielo avessero consentito. Se poi non lo avessimo visto, ce lo aveva detto! Su quali fossero poi questi impegni, si era mantenuto sul vago ma alla fine aveva buttato lì che il problema consisteva nel fatto che sabato sera avrebbe fatto “ultra-tardi” che per un padre di figli pre-adolescenti difficilmente può voler dire le sei di mattina, ma quell’”ultra” lasciava un’alea di pretesa commiserazione che non potevi, per cortesia, mettere in dubbio. Un maestro, come avevo anticipato.
Alla fine si era addivenuti a una soluzione condivisa: domenica mattina alle 9.00 davanti alla facoltà di Agraria alle Cascine.
Casualmente sabato sera, complice il saggio di canto di Elena e la successiva pizza di gruppo a cui avevo di buon grado acconsentito, sono andato a letto tardi e, forse a causa di difficoltà digestive acuitesi con l’età, ho spento la luce dando un occhio alla sveglia: le due e mezzo!, domattina quando suonerà alle otto proverò un dolore atroce.
Così è stato e, mentre preparo la colazione, accendo lo smartphone e vedo un messaggio di Filippo che, a mezzanotte e quaranta, sul gruppo di Whatsapp annunciava di essere ancora da amici e di non farcela, ringambando. Resto senza parole, butto lì che non avevo letto il messaggio ieri sera anche se – senza passarmi neanche per un attimo l’idea di ringambare, a me! – mi ero addormentato dopo le due e mezzo.
Ema si inserisce: “Sono già alle cascine muoviti!”
“Devo fare colazione”, rispondo subito, poi guardo l’ora: sono le 8.35, Ema manco veniva, mi sta prendendo in giro:
“A te non ti parlo” e chiudo lì.
Visto il rincoglionimento oggettivo e sapendo che Gigi voleva partire più tardi possibile, gli mando subito un messaggio spiegando la situazione e concordo un posticipo di mezz’ora: 9.30 ma partendo da casa mia anziché da Agraria più comodo per entrambi.
Durante la nostra oretta di corsa, dopo il racconto del suo viaggio in Giappone, gli ho infine riassunto quanto sopra: non c’è più religione, ma ti rendi conto questi nipoti di oggi, non hanno più spirito di sacrificio, nessun senso deontologico, ti giuro che neanche avevo preso in considerazione la possibilità di rinunciare perché ieri sera alle due e mezzo non mi ero ancora addormentato, e loro...
“Marcoooo!”
Mi giro verso il triangolo di prato tra la scuola di Agraria e l’ippodromo, dove gruppi di peruviani stavano già approntando i tavoli e le cucine da campo per il pranzo domenicale.
“Marcooo!” grida ancora un tizio tarchiato con la maglietta bianca che mi saluta con la mano.
Con Gigi ci fermiamo:
“Chi sei?” urlo di rimando
Poi alle sue spalle vedo un tizio con un cesto di capelli che mi saluta: Ema!
“Fava!” dico mentre deviamo verso di lui.
Cos’era successo? Si era svegliato inaspettatamente presto e, per farci una sorpresa (dopo il "pacco" voleva farci il "doppio pacco"), era venuto all’appuntamento senza dire niente. Quando aveva visto lo scambio si era inserito per farmi che capire che lui c’era. Aveva interpretato la mia risposta nel senso che, dovendo io fare colazione, avrei un po’ tardato e ci aveva aspettato fino alle 9.30. Dopodiché aveva fatto un giro verso ponte vecchio ipotizzando che ci fossimo mancanti e che probabilmente avremmo fatto un giro sui lungarni, con la speranza di incrociarci in qualche punto.
Il caso ha voluto che avesse parcheggiato lì e ci avesse visto mentre beveva un integratore. Quindi incontrare ci siamo incontrati ma in pratica alla fine della rispettiva corsa.

La morale?
Almeno duplice:
Uno. I nipoti di oggigiorno supereranno gli zii (e già lo hanno fatto) ma gli zii continueranno a scuotere la testa e a sostenere che non ci sono più i nipoti di una volta.
Due. La comunicazione: se invece di usare la tecnologia sopraffina affidandosi a messaggi forzatamente ridotti e malinterpretabili, fossimo ricorsi a una impegnativa ancorché vetusta ma semplice telefonata forse sarebbe stato meno buffo ma avremmo corso tutti insieme.

Ma forse è giusto così, i nipoti fanno i nipoti, gli zii fanno gli zii, ci si perde e ci si ritrova con lo smartphone come (da quasi vent’anni) con gli sms e (prima ancora) con il telefono fisso.


La mia vera morale? Raccontare storielle e, possibilmente, riderne. Ma senza perderci (e prenderci) sul serio.


Epilogo (dopo le morali di coda)
Io e Gigi trotterelliamo via sul prato passando tra i tavoli già allestiti per il pranzo:
"Ciao Marco!"
"Ciao!" mi giro e sorrido al giovane ristoratore peruviano dalla voce possente.


sabato 13 giugno 2015

Putain, s'il fait chaud! (Caz.o che caldo!)

"Putain, s'il fait chaud!" ha detto Michel mentre facevamo stretching. L’ho imbeccato, perché ultimamente sono pigro, me ne approfitto e tra noi parliamo quasi sempre in italiano. Lì per lì ho detto “caz.o che caldo!” E poi “tu diresti Putain!...” e lui ha soffiato fuori tutto insieme “Putain, s'il fait chaud!”
Sarà stato quasi l’una e mezza di una calda giornata di giugno. 

Eravamo arrivati negli spogliatoi dubbiosi e già sudati: 
“Facciamo pochi chilometri” ho buttato lì. 
E poi ho rincarato: “Restiamo nel parco cercando di correre solo all’ombra”. 
“Sì sì”, ha annuito convinto lui. 
Poi negli spogliatoi sono arrivati gli altri, quelli dello stormo, e loro non restano ‘al chiuso’ nel parco neppure se nevica o le lucertole evitano il sole. 
Io guardo Michel e gli sussurro, meno convinto: “Noi stiamo dentro, vero?”. 
Lui annuisce anche se con gli occhi più grandi. 
“Voi dove andate”, faccio casuale. 
“Andiamo al laghetto”, risponde Fabrizio, il capo-stormo, come a dire: che vuoi fare... 
Effettivamente la loro alternativa è il giro del cimitero di Bolgiano e in quel caso il percorso è completamente al sole... 
Riguardo Michel e gli dico a mezza voce: “Il giro del laghetto è tutto all’ombra... che dici?” 
Non mi ha neppure risposto. Ci siamo bagnati i capelli, ho calcato in testa uno dei miei cappellini e via in stormo.
Al ritorno dopo una generosa innaffiatura alla fontanella ci siamo messi all’ombra a fare stretching.

Questo il breve racconto che solo un paio di anni fa mi sarebbe sembrato inconcepibile: correre con il solleone non è salutare!, mi dicevo. Non ha senso, mi dicevo.
Ecco, un senso può averlo, a trovarlo.
Supponiamo che tu voglia fare una gara in cui la corsa a piedi si svolge verso le due o le tre del pomeriggio nel periodo primaverile o peggio estivo: andrà messo in conto che il caldo e il sole faranno parte delle difficoltà da affrontare.
"Ma chi te lo fa fare!?!" 
Questa è un'altra storia: per adesso supponiamo che.
L'allenamento per questa ipotetica gara non sarà teso solo a essere in grado di correre una certa distanza più velocemente possibile (magari dopo aver fatto qualcos'altro prima, ma questa è un'altra question e ci sono altri allenamenti specifici), ma dovrà prepararti a farlo nelle condizioni di gara, ossia con il sole, e il caldo, e l'umidità, e la ventilazione (o mancanza di ventilazione), che troverò al momento della gara.
Ecco che un'attività apparentemente insalubre, o comunque non molto sensata, comincia a prendere senso, ci stiamo allenando a sopportare il caldo durante la corsa.
Paradossalmente: meno male che fa caldo e noi possiamo allenarci in pausa pranzo!
La morale? Il mondo è bello perché è vario.

mercoledì 10 giugno 2015

Les athlètes dans leur tête (Recensione estorta con l’inganno)

Dove l’abbia trovato menzionato non lo ricordo. Fatto sta che avevo questo titolo tra i libri, sulla corsa, da leggere. Non è stato facilissimo ma l’ho trovato (tanto per cambiare non mi risulta sia stato tradotto e pubblicato in italiano).
Innanzitutto è una raccolta di racconti e da come si può arguire dal titolo si parla di atleti in generale per cui non mi ha meravigliato ritrovarmi a leggere racconti su ciclisti, sciatori, rugbisti, saltatori con l’asta, eccetera. In ogni caso ero fiducioso dato che tra le varie discipline non poteva mancare la corsa, sia pur declinata in qualcuna delle sue specialità: c’è un racconto che ha come protagonista un centometrista, uno un quattrocentometrista e un terzo su un fondista non meglio specificato, ma si capisce che fa gare in pista, che si rovina con il doping. Quindi la mia lettura, pregiudizievolmente in attesa di un racconto su un maratoneta o qualcosa di simile, è rimasta in uno stato di sospensione di racconto in racconto fino alla delusione finale. D’altra parte di racconti sulla corsa, come ho detto, ce ne sono, pertanto è stato sciocco rimanere delusi, come se quella non fosse corsa, solo per il fatto che per me la corsa è tale solo dai dieci chilometri in poi. Sicuramente c’è chi, all’opposto considera vera corsa quella che permette di andare davvero al massimo della velocità assoluta e quindi su distanze forzatamente più brevi. E quindi in questa raccolta costui avrebbe trovato almeno un paio di racconti in sintonia con il suo modo di intendere la corsa. E sarebbe rimasto meno deluso di me.
Alzando la testa, senza pregiudiziali di sorta, devo ammettere che si tratta di racconti leggibili e un’opera di narrativa sullo sport interessante. Non per nulla ha vinto il « Grand Prix de littérature sportive » nel 1988 e il « Prix Goncourt de la nouvelle » nel 1989. Peraltro Paul Fournel, appassionato ciclista, non è nuovo a scrivere sull’argomento sportivo e in particolare sul ciclismo.

PS: Dalla quarta di copertina apprendo che Fournel è presidente dell’Oulipo. A parte il fatto che ignoravo esistesse ancora questa gloriosa istituzione mi è parso curioso e meno inusuale il suo interesse per argomenti non prettamente letterari. Per chi non sapesse cos’è l’Oulipo se lo può andare a cercare ma soprattutto un consiglio che esula dalla corsa: Queneau. Sicuramente  oramai datato ma autore fondamentale (“Esercizi di stile” è stato fin da subito un riferimento per autori e studiosi come Calvino e Eco).

Les athlètes dans leur tête
Paul Fournel
Éditions du Seuil
1988 (1994 con un racconto aggiuntivo)

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martedì 28 aprile 2015

“Solo per un giorno” di Massimiliano Boni: bella narrativa sulla corsa




Prologo

66thand2nd è una piccola e interessante casa editrice che ha, tra le altre, un’originale collana di narrativa sullo sport. Narrativa. Sullo sport. Di autori sia italiani che stranieri. Cercate un bel libro sul calcio, sia giocato che guardato, sul ciclismo, sulla boxe, addirittura sul rugby? Loro ce l’hanno.
Ora ne hanno uno anche sulla corsa. Questo è anche il motivo per cui invidio Massimiliano Boni.

Fine del prologo

Prima del testo un occhio al paratesto: la seconda di copertina, in questo caso l’aletta, riporta il seguente brano che non è neppure una sinossi ma piuttosto una sorta di manifesto programmatico di quanto narrato e vissuto dall’autore.

Massimiliano Boni non è un eroe, se non per un giorno in un anno. Questa è la storia degli altri trecentosessantaquattro. In quel tempo fa due cose: corre e scrive. Poi, certo: lavora, legge, si occupa della famiglia, ricorda, rimpiange, sogna. Ma queste altre cose accadono di lato: al centro, corre e scrive.

Quando me lo sono portato a letto, l’ho declamato a voce alta e poi ho concluso:
“Mi basta così, non ho neppure bisogno di leggere il libro, è già troppo bello questo sunto.”
“E allora perché l’hai comprato?”, ha chiesto Elena, mentre si spalmava la crema Nivea alternativamente sul dorso dell’una e dell’altra mano.
“Perché glielo dovevo, proprio per questo brano. E poi perché ha pubblicato un romanzo sulla corsa.”
Elena ha terminato con cura l’operazione senza degnarmi di uno sguardo, ma sapevo che stava sorridendo mentre io mi accingevo a attaccare la lettura del mio nuovo librino.

Non si tratta di un romanzo, lui lo chiama diario, ma l’aspetto cronologico che punteggia il racconto della preparazione alla sua seconda maratona non è che un pretesto, una scusa. In realtà si tratta di una silloge di brevi ma intensi racconti di vita vissuta, sentita, contemplata con lucidità. E i racconti sono belli e ben scritti. Sono sinceri, curati, un lavoro da ottimo artigiano, ‘artista di strada’ si definisce l’autore, per non compararsi ai grandi scrittori e ai grandi corridori, che con costanza e determinazione fa del suo meglio per raggiungere il risultato che si è prefissato, sia nella scrittura che nella corsa. Non vincerà gare o pubblicherà un best seller ma lui ha la coscienza a posto di avercela messa tutta con rispetto per se stesso e per chi gli sta intorno, lettori compresi.
Un libro bilanciato: la morale è che non si vive di sola corsa, si vive con la corsa ma anche senza o comunque con il posto che le compete in quel momento specifico della nostra vita.
E se fa riferimento anche a qualche aspetto tecnico della corsa, come tempi e passo, riesce a farlo senza appesantire la narrazione, anzi anche questi aspetti divengono parte osservata come tutto il resto del mondo interno e esterno a lui mentre corre e scrive. Mentre vive.
Infine il titolo: anche qui l’autore ha lavorato per sottrazione: dal verso della canzone ‘Heroes’ di David Bowie, ‘We can be heroes, / just for one day’, resta solo l’ultima parte “solo per un giorno”. Sottointeso eroe.

Dopo aver letto questa raccolta di racconti, invidio Massimiliano Boni ancora di più: in senso buono, diciamo che lo ammiro e vorrei essere riuscito a fare quello che ha fatto lui. Perché anche io corro e scrivo. E tutto il resto ovviamente.

Niente altro da dire: leggételo e, se non la conoscete già, scoprite anche una bella casa editrice.

Solo per un giorno
Massimiliano Boni
66th and 2nd
2015

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domenica 1 febbraio 2015

« Courir – Méditations physiques » … Corro ergo sum! (recensione)

C’è una libreria nel Marais a Parigi dal nome evocativo, Comme un roman, che adoro e in cui non manco di fare una sosta ogni volta che mi fermo qualche giorno. Durante le vacanze di Natale sono riuscito a trovare un altro libro sulla corsa. Ribadisco che il mio obbiettivo sono libri di narrativa o saggistica intorno alla corsa ma non dei manuali di corsa. Procedo in due fasi. La prima è quella più scontata: parto a esaminare la sezione “Sport” e la sottosezione “Corsa”, ma ovviamente i risultati sono molto limitati e i libri più o meno sempre gli stessi. La seconda fase, quella più creativa e faticosa, è quella di scovare un libro sulla corsa tra quelli “normali”. Rarissimamente questa ricerca ha successo e soprattutto quasi mai è merito mio. Questo libro infatti mi fissava, con la sua copertina rosso fuoco, dal tavolo delle novità filosofiche. Il titolo Courir era autoesplicativo: l’ho preso senza neanche sfogliarlo, mi è bastato il sottotitolo: Méditations physiques.
Trovo che corsa e filosofia siano un ottimo abbinamento e questo non è il primo libro di un filosofo che vi segnalo (“Correre con il branco”).
Anche in questo caso si tratta di brevi racconti o riflessioni sulla corsa, non casualmente ‘quarantadue capitoli e qualche centinaia di parole’, da parte di uno che corre abitualmente e ha esperito anche varie maratone, pertanto diciamo che sa di che sta parlando.
Ovviamente non tutto il libro è allo stesso livello ma ci sono riflessioni e spunti che ho trovato interessanti.

Si parte dalla diffidenza nei confronti della corsa di Descartes che nel suo “Discorsi sul metodo” afferma che “coloro che non camminano troppo velocemente possono avanzare molto di più, se seguono sempre il dritto cammino cosa che non fanno coloro che corrono e che se ne allontanano”. Ovviamente il nostro è in disaccordo e cerca invece di figurarsi una filosofia non tanto della corsa ma in corsa: che cosa si esprime nel corpo in moto? Quale visione del mondo si ha durante la corsa? Queste domande il corridore le sente come degli stati del corpo. In alcuni casi non se le deve porre dopo aver corso ma proprio mentre corre. Si tratta di pensare nel movimento stesso.

Ovviamente quella cui si riferisce Le Blanc è una filosofia non professionale, il suo è un filosofo amatore che corre tutte le domeniche e che non è sottomesso alle stesse limitazioni di dover costruire dei pensieri strutturati, sistematici. Il corridore-filosofo inventa le idee di cui ha bisogno per la distanza che sta correndo o meglio sono le idee che gli vengono in mente che gli permettono di popolare la sua solitudine, a meno che non circolino liberamente durante le discussioni con altri corridori.
Poi però l’autore si rende conto che la distinzione tra filosofia professionale e amatoriale del corridore è falsa dato che molte dellle cose che lui stesso scrive nei suoi saggi filosofici sono passate attraverso quel “laboratorio mobile delle idee”... Correre consiste dunque nell’inventare dei pensieri sulla corsa alcuni dei quali potranno sopravvivere alla corsa stessa. Al medico-filosofo di Nietzsche, il nostro affianca il corridore-filosofo che rivendichi un’arte di pensare a 12km/h...

Ci sono almeno due prove metafisiche che il corridore-filosofo deve affrontare.
La prima consiste nel prendere la decisione di continuare a correre mentre gli sarebbe possibile, in ogni istante, fermarsi. Il dimenticare questa scelta cruciale si chiama, a suo dire, estasi o grazia, mentre il ricordo costante di questa scelta sarebbe una pesantezza spossante.
Il corridore dunque finisce per essere drogato di asfalto: in mancanza di corsa cerca la corsa per colmare questa mancanza e raggiungere una serenità che si manifesta solo dopo, ma la società stessa (capitalistica) sembra promettere ben più a chi si avvicini alla corsa. Quindi la corsa allo stesso tempo è veleno e antidoto, malattia e medicina.
Più che un consenso alla dipendenza, secondo l’autore, di tratta di paradosso: una ricerca di dipendenza come prova di indipendenza. Infatti non solo colui che corre decide di continuare a correre ma non è affatto sicuro della sua presunzione di farcela: sarà soltanto alla fine che potrà dire “ho corso”. La posta in gioco, quindi, è la risposta alla domanda “arriverò fino alla fine?”, ossia una questione di libertà.
Una seconda prova metafisica: il corridore non è solo colui che decide di non fermarsi durante la sua corsa, ma anche colui che decide di non fermarsi ‘dopo’, e di correre nuovamente. La corsa è allora un evento mentale oltre che fisico: essa viene corsa mentalmente nella testa di chi ha deciso di fare un’altra uscita, un altro allenamento.

Quest’ultima mi è parsa una considerazione molto corrispondente a quanto mi accade e che mi ha fatto riflettere: la corsa è infatti molto pensata e parlata sia prima che dopo l’azione della corsa in sé: prefiguriamo un allenamento, ne valutiamo le difficoltà, i vantaggi, come reagiremo, ne pregustiamo gli esiti, poi dobbiamo fare i conti con cosa è successo, come abbiamo reagito a determinate circostanze, anche in confronto con evidenze passate o con altri intorno a noi, e traduciamo dati, cifre e sensazioni in parole, scritte o parlate. Spesso il tempo dedicato alla corsa in quanto evento già avvenuto o ancora da avvenire è maggiore del tempo effettivo della corsa in quanto avvenimento.
Forse non sarà una questione filosofica ma di sicuro è metafisica, in quanto va oltre agli aspetti fisici della corsa.

Per quanto riguarda la categorizzazione, secondo le principali scuole filosofiche, delle fasi del pensiero durante la corsa (tema affrontato in modo molto più convincente da Mark Rowlands nel summenzionato “Correre con il branco”): il maratoneta, secondo Le Blanc, comincia come kantiano quando prova il libero gioco delle sue facoltà. Prosegue come cartesiano quando sente il corpo venir meno e fa appello alla sua volontà per ridargli slancio. Finisce spinoziano quando l’essenziale per lui è di perseverare nel suo essere quando oramai corpo e spirito sono due serie parallele.

Un capitolo sul conterraneo Baudrillard non poteva mancare. Ho già avuto modo di parlarvi di quanto scritto (stavo scrivendo “sbrodolato” forse per assonanza con il cognome) da Baudrillard sulla corsa nel suo “America” (Correre: odio o amore. Due mezze recensioni). La critica fondamentale di Le Blanc è che Baudrillard si è posto di fronte a questa marea di joggers o runners come di fronte a uno spettacolo, non ha minimamente ipotizzato di poter verificare di cosa si trattasse, di immedesimarsi. Ha solo visto un suicidio rituale di massa.

Non mancano capitoli dedicati a racconti o romanzi sulla corsa, come per esempio “La solitudine del maratoneta” di Sillitoe.

Tutto francese il capitolo socio-politico su Sarkozy che ha fatto della corsa un suo tratto distintivo rispetto ai suoi predecessori. In questo caso l’autore riflette sullo sdoppiamento del corpo ‘istituzionale’ e quello ‘privato’ dell’ex-presidente francese.


In breve: non si tratta di un libro imperdibile ma siccome dubito venga mai tradotto in italiano, mi sono soffermato con una certa attenzione, quasi traducendole, su certe parti che ho ritenuto di interesse.

Courir – Méditations physiques
Guillaume le Blanc
Flammarion, 2012


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