Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

lunedì 31 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 14

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40km


Il prossimo ricordo vero è dopo il ristoro dietro l’abside del duomo: osservo le larghe pietre del selciato, scure e lucide e mi rendo conto che l’unico motivo di apprezzamento per il tempo piovoso è la sensazione, soprattutto in quegli ultimi chilometri, di poter quasi strisciare i piedi sui lastroni di pietra scivolando senza attrito. Se fosse stato asciutto avrei dovuto fare attenzione a sollevare di più i piedi, per non rischiare di strisciare, faticando ulteriormente. Fine dei motivi per apprezzare il tempo di oggi.

Via Ghibellina è in salita, questo è un altro insegnamento dell’anno scorso. Ci sarò passato migliaia di volte in via Ghibellina in vita mia. Per lo più in scooter o in auto. A piedi pochissime volte, quando andavo alle medie venivo a prendere l’autobus per tornare a casa proprio in cima a via Ghibellina poco prima di arrivare al viale. Correndo ci ero passato alla fine di un lungo, quando seguendo il consiglio di non ricordo quale rivista per impratichirci e non essere colti alla sprovvista, avevamo fatto il percorso della maratona ma spezzandolo in due allenamenti tra i venti e i trenta chilometri. E poi in gara. Solo che in gara fai il tratto finale dopo aver appena percorsi quarantuno chilometri e solo in certe condizioni si percepiscono tali differenze: l’ultimo tratto di via Ghibellina, è in salita. Non sarà le salite della First Avenue nella maratona di New York ma per me anno scorso fu una salita.
E poi, quasi a indicare la durezza della strada, ma in realtà era avvenuto all’inizio quasi all’altezza del Bargello, ma io lo ricordo come “via Ghibellina”, insomma anno scorso Emanuele ebbe la seconda e ultima, ma letale, crisi di crampi. E di nuovo con la coscienza a posto, perché anche stavolta c’era qualcuno che lo aiutava dato che con noi c’era Leonardo che si fermò a stendergli il tricipite, io proseguii nella mia lenta conclusione che a me parve una fuga in salita, appunto. Quindi quando quest’anno abbiamo girato in via Ghibellina sapevo cosa mi aspettava ma ho continuato strisciando i piedi sulle pietre lisce e proseguendo con Emanuele che mi diceva: ormai è finita, ormai ce l’hai fatta, manca poco.

Quando vedo il cartello 41km qualcuno intorno a me esulta, ci siamo, ci incoraggiamo a vicenda siamo tre o quattro nel raggio di pochi metri, non c’è competizione ma solo solidarietà, avercela fatta tutti quanti, ognuno per la sua strada, ognuna con la sua storia, le sue fatiche, chi più giovane e chi più vecchio.
Viale Giovine Italia, dove stamani ho parcheggiato lo scooter, di qui siamo già passati all’inizio quando eravamo freschi e speranzosi. Adesso mancano poche curve, il lungarno della Zecca, alle transenne il pubblico ci incoraggia, ai lati maratoneti con il Domopak sulle spalle fluiscono nel senso opposto, loro sono già arrivati e si godono il risultato, mentre io sono ancora qui che soffro e devo ancora arrivare, la sento come un’ingiustizia, un sgarbo o almeno un’indelicatezza da parte loro, per lo meno non ci guardino e non ci facciano sentire inferiori.

Emanuele mi lascia davanti alla Biblioteca Nazionale dato che non vuole che venga preso il suo tempo visto che non è partito dal via. Per tutto il tempo quando qualcuno ci incoraggiava o ci applaudiva lui si scherniva, si scansava quasi per non prendersi un merito o un incoraggiamento che non si meritava, io invece pensavo che era un eroe perché aveva faticato e preso pioggia e freddo solo per aiutare me.


giovedì 27 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 13

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35km


Spuntando in via Martelli mi sento a casa improvvisamente a casa. Per forza, qui ci sono venuto ogni mattina per cinque anni. L’edificio che assomiglia a un carcere era il mio liceo, il liceo ginnasio Galileo Galilei. E fu proprio allora, durante l’ultimo anno che cominciai correre. Tutto è cominciato per colpa di Luigi e di Rocky. Con Luigi ci conoscevamo dalla seconda elementare e da quel giorno siamo stati inseparabili, come Tex Willer e Kit Carson, Starsky e Hutch, Batman e Robin. Rocky invece è proprio Rocky, il film. Una sera l’abbiamo rivisto in televisione. E la scena che ci piaceva di più era quella della corsa la mattina, quando è ancora buio e lui attraversa la città. Dal giorno dopo, Luigi alle sei era sotto casa mia, non suonava per non svegliare i miei, io scendevo. Facevamo due giri dei ponti (San Niccolò e Da Verrazzano), suppergiù quattro chilometri, poi rientravamo, doccia e di nuovo a letto. Quando dieci minuti dopo suonava la sveglia per andare a scuola, mi alzavo con la sensazione di essere fresco e riposato. Dopo una settimana il professore di italiano durante la lezione mi scosse dicendomi “Mimmo, mimmo: che c’è, ti senti male?” balbettai qualcosa… non potevo dirgli che mi ero addormentato. Cambiammo orario della corsa spostandola a prima di cena.

Passaggio tra Duomo e Battistero poi via Roma. Conosco bene questo tratto, ogni corsa che si tiene a Firenze non può prescindere da partenza, passaggio o arrivo in piazza del Duomo e piazza della Repubblica. Quest’anno ci siamo passati due volte nella mezzamaratona a Aprile mentre “Corri la vita” è partita proprio dal Battistero verso piazza della Repubblica.
Questo è il tratto in cui ci dovrebbe essere più pubblico, sicuramente c’è ma lo vedo a malapena, sento qualche incoraggiamento indirizzato a me come a tutti quelli che passano, un incitamento generico ma lo prendo individualmente come se fosse proprio per me, tutto fa, ne ho bisogno per riscaldarmi e andare avanti. In via della Vigna Nuova mi sento come una bilia in un flipper, incanalato, guidato dalla stretta via e dagli alti palazzi. Mi ricordo che anno scorso passammo di qui verso il venticinquesimo chilometro, eravamo ancora pimpanti, Emanuele sempre un passo avanti a me, e poi proprio qui davanti a palazzo Rucellai ebbe la prima crisi di crampi e io lo lasciai, vigliacco, lo lasciai al suo amico che ci seguiva in bicicletta che gli tirava il piede mentre lui era steso in terra, e io non mi sono fermato, come se non potessi neppure incrinare la mia andatura, dove non c’era niente da buttare via, niente di superfluo, ripresi a guardare in avanti e continuai senza neppure rallentare. Mi avrebbe ripreso dopo quando avrei avuto io le mie crisi di crampi.
Ma stavolta lui è lì solo per me, e io sono stanco e vado avanti stando attento a tutto, a dove metto i piedi, alle gambe che non stanno avendo problemi, alle braccia che continuano a andare avanti e indietro, ai pugni stretti ma non troppo. E rilasciare la mandibola, che si era serrata, approfittando dell’espirazione. Soffiando riesco a mollare e decontrarre i muscoli senza che i denti siano a contatto forzato.

Borgo Ognissanti, piazza Ognissanti. Per un attimo mi distraggo, giro la testa a sinistra e intravedo il flusso dei corridori che, fortunati loro, corrono nel senso opposto e hanno già fatto quei due chilometri almeno che io invece devo fare inutilmente... sarei già lì se fosse questione di fare il percorso più corto, putroppo l’aspetto negativo del correre a Firenze è che si passa e si ripassa quasi negli stessi luoghi. Nel percorso ci sono addirittura tre incroci, i primi due sono fittizi dato che da ponte San Niccolò ci passiamo dopo la partenza e poi di nuovo poco prima della mezza, pertanto nessuno può “sbagliare” percorso né alcun flusso può incrociarsi dato lo scarto temporale. Lo stesso per l’incrocio subito dopo all’altezza di via dell’Agnolo dato che lì ci si passa nei primi due o tre chilometri e poi quando si punta al trentacinquesimo chilometro. Il terzo incrocio è virtuale, dato che in un senso si passa sotto il cavalcavia di piazza Alberti per andare in via Mannelli mentre al ritorno dallo stadio si passa sopra e quasi non ci si vede, per fortuna perché lì l’invidia sarebbe stata ancora maggiore dato che chi passa sotto va verso i venticinque mentre che passa sopra è ben oltre i trenta chilometri.
Poi ci sono i punti in cui ci si sfiora: alle cascine c’è un tratto, come ho già detto, in cui tre fiumi di maratoneti ancora energici sono separati da qualche siepe e poche decine di metri. Arrivando allo stadio e venendone via si usano aree contigue di uno stesso incrocio a distanza di due o tre chilometri di percorso. Poi c’è piazza del Duomo in cui due flussi attivi, uno subito dopo i trentacinque chilometri e l’altro verso i quaranta, si sfiorano passando tra il battistero e la facciata del duomo in direzioni opposte separati da una esile fila di transenne. E infine Borgo Ognissanti che scorre parallelo al Lungarno Corsini.


Poco prima di ponte Santa Trinita mi rendo conto con timore, me ne ero scordato, che un’altra variazione al percorso consiste nell’attraversare l’Arno due volte rientrando trionfalmente da Ponte Vecchio. Da un punto di vista scenografico è un’ottima soluzione peccato che io ricordi ancora, a distanza di un anno, la fatica estrema provata solo sfiorando le rampe dei ponti, figurarsi doverci salire sopra per ben due volte.

Ormai ci siamo, affronto la salita e la curva stretta alla spalletta per risparmiare il tragitto e mi accorgo del fotografo che mi sta immortalando: sorrido. Per pochi secondi. 

Del tratto di Borgo San Jacopo, Ponte Vecchio, via Por Santa Maria, Piazza della Signoria, via Calzaiuoli fino a Piazza Duomo non ricordo assolutamente niente, niente. Se mi sforzo vedo i luoghi, perché so che ci sono passato, ci devo essere passato per forza dato che poi sono arrivato alla fine, però sono come fotografie senza persone, vuote, non riesco a riviverli, a visualizzare dalla prospettiva individuale. Niente.


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giovedì 20 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 12

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30km


Emanuele mi incoraggia facendomi notare che ho un vantaggio di 8 minuti, in realtà è un vantaggio su 30km rispetto alle 3 ore che però non è il mio obbiettivo, dato che vorrebbe dire andare a 6.00 e metterci 4 ore e 13, mentre io vorrei metterci quattro ore e quindi dovrei tenere una media di 5.40. Di certo sono in vantaggio rispetto all’anno scorso quando passai al trentesimo in tre ore esatte. Oltretutto adesso il 2.52 è il tempo ufficiale ma non è neppure il tempo reale visto che sarei a 2.48 con un media totale di 5.45 quindi sarei in ritardo ma in questo momento non lo so dato che ormai sono stanco e non riesco a far di conto. Devo fare attenzione solamente a non rallentare troppo.
Quando ripassiamo dall’incrocio con il palco e la musica mi sorprendo a canticchiare Video killed a radio star, se ho fiato da buttare allora non sono messo troppo male, penso. La musica e il cantare mi incoraggia. Affianchiamo la Grazia, di Grassina come Emanuele, l’ho conosciuta alla scorsa maratona, lei correva con Michele e si fermarono verso il trentesimo chilometro. Quest’anno Michele è ancora fermo per dei problemi al ginocchio, c’è un vecchietto che accompagna Grazia. Emanuele lo conosce, anche lui di Grassina.
- La fai anche tu, gli chiede Emanuele. Intende la maratona.
L’omino scuote la testa:
- Sono venuto a accompagnare la Grazia per un po’, poi torno a casa.
Sul sovrappasso Grazia cammina, io invece non voglio smettere di correre. Quando ci siamo allontanati, Emanuele mi fa: quello – indicando con la testa il vecchietto con la Grazia – è venuto da Grassina a Firenze correndo, fa compagnia a lei per quindici chilometri e poi se ne ritorna sempre correndo a Grassina...

Devo dire grazie a Emanuele: se ho superato limitando i danni la crisi intorno allo stadio, se ci sono dei chilometri che non mi ricordo neppure di aver percorso e siamo arrivati in piazza Duomo senza quasi accorgermene, lo devo a lui. Vedo come in sogno via Piagentina, via Fra’ Giovanni Angelico, via dell’Agnolo, mentre non ricordo affatto via della Mattonaia né piazza d’Azeglio.
A un certo punto, in via Colonna mi fa: - Oh, io chiacchiero ma se vuoi sto zitto.
E mi sono reso conto che anche io stavo chiacchierando: mi ero distratto però stavo anche faticando.
- Va bene, tu puoi parlare, ma io devo stare un po’ più zitto.
Niente piazza Santissima Annunziata, eppure ci siamo passati, mentre ricordo bene la curva a sinistra in piazza San Marco per entrare in via Ricasoli, una volontaria ci voleva far girare alla larga da un piolo che avevano fasciato con della gommapiuma, Emanuele mi ha “difeso” dicendole che l’avevamo visto e facendo scudo in modo che io potessi sfiorarlo tenendo la corda nella traiettoria minima.

- Ma siamo quasi al 35° km... dov’è il rifornimento?
- È lì più avanti
- Io non vedo niente.
Siamo in via Ricasoli. Sono infastidito, ce l’ho quasi con Emanuele se non c’è il ristoro, come se fosse colpa sua, ma è solo la stanchezza che comincia a sovraffarmi, come quando ho fame che divento nervoso e non sopporto più niente. Svoltiamo in via Pucci e poi ancora in via Martelli e finalmente ecco il ristoro. Ovviamente Emanuele non poteva vederlo da via Ricasoli, ma cercava solo di alleviare la mia stanchezza, di distrarmi rimandando di qualche centinaia di metri la mia necessità.

Noto rileggendo queste righe che con il passare dei chilometri le osservazioni diminuiscono e mi limito a pochi appunti superficiali. Non è che mi sono stufato di raccontare, è che non riesco a pensare più niente, né a osservare in modo lucido, le facce di alcuni turisti in coda sul marciapiede per la Galleria dell’Accademia, alcune toppe dell’asfalto, pietre diseguali del marciapiede, lo specchietto storto di un’auto parcheggiata, ormai le immagini mi scorrono davanti come in un sogno sconnesso.


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lunedì 17 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 11

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25km


Poco prima della stazione ferroviaria di Campo di Marte appare il ristoro del venticinquesimo chilometro, anche stavolta prendo al volo due bicchieri, uno di tè e uno di acqua e sali, continuo a corricchiare scansando le persone che si fermano davanti a me e sbrodolandomi il tè sulle cosce.

Vedo su un lato, poco dopo i tavoli, un palo provvisorio con una piccola telecamera che mi inquadra. Mi sono rifiutato di comprare il video girato durante la corsa: tutte le telecamere fisse erano appostate subito dopo i rifornimenti di modo da essere sicuri di inquadrare, sia pure brevemente, tutti i partecipanti, questo lo posso capire, però allo stesso tempo vedere solo quattro diversi momenti in cui procedo lentamente bevendo, non mi pare altamente eroico.
Le foto invece le ho comprate anche se pure in quel caso ci sarebbe stato da protestare: possibile che le inquadrature fossero disponibili solo dal trentesimo chilometro in poi? Sarebbe stato troppo pretendere di essere ripreso mentre correvo tranquillo e sorridente? Possibile essere immortalato sempre e solo in sofferenza, visto che il declino è appunto cominciato lì?

Pochi metri prima della stazione, saremo neppure al km 26, vedo sulla sinistra Emanuele.  Parte e mi affianca. Sono salvo.
Aveva paura di avermi perso, che erano passati dei gruppi fitti. Lo aggiorno sui miei tempi e su come è andata finora. Passiamo il ponte del Pino e torniamo indietro per via Campo d’Arrigo. All’altezza dello stadio di atletica imbocchiamo viale Malta. Comincio a sentire la stanchezza, vedo che sto rallentando, adesso sono sui 5.50.
Ieri mattina ero qui nella folla per ritirare il pacco-gara, eravamo tutti contenti e elettrizzati per un l’impresa del giorno dopo.

Circumnavighiamo la piscina Costoli, stringo i denti. Sull’angolo tra viale Fanti e viale Paoli c’è un palco con qualcuno che passa musica disco anni ottanta. Sento che sono concentrato a risparmiare i passi, controllo i movimenti resi sempre più evidenti dalla fatica, adesso ogni singolo gesto esiste proporzionalmente alla fatica generata per compierlo.
Giriamo verso lo stadio. Un sottile striscia di corridori taglia il viale in diagonale, come per fronteggiare nel modo più comodo il vento che soffia da nord. Il giro intorno allo stadio è fustigato dalla tramontana, minimizziamo il percorso stando stretti alla cancellata sul marciapiede, cerco di tenere il passo ma so che sarà dura.
Passiamo davanti al bar Marisa mentre cerco di risparmiare sulla traiettoria cercando di evitare anche minime deviazioni, è già dura.
Passiamo accanto allo stadio di atletica fino a passare tangenti al percorso che abbiamo fatto poco prima per entrare in viale Malta, ritorniamo verso nord imboccando via San Gervasio che non avevo mai percorso, a parte un volta che ho provato il nuovo percorso, in due parti. Si arriva a una piazzetta lungo via Cento Stelle e si torna verso lo stadio riprendendo il giro massimo del Campo di Marte lungo viale Fanti.
Mi mangio un altro mezzo minipack prima del ristoro dei trenta chilometri.


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sabato 15 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 10

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20km


Dopo il ristoro lo perdo di vista, come al solito non mi sono fermato ma ho solo rallentato cercando di evitare collisioni, ho preso due bicchieri con i sali e, come al solito, ho bevuto quello che mi è riuscito.
Sento una sirena che si avvicina da dietro. Giro la testa e intravedo il lampeggio di un’ambulanza che procede lenta evitando i gruppetti di corridori. Mi sposto sul marciapiede lungo l’Arno, ormai è al mio fianco lentissima, il suono mi perfora l’orecchio destro, in questo momento non ho alcuna pietà per chi possa esserci dentro ma voglio che se ne vada al più presto e smetta di torturarmi.

Scendendo dal ponte San Niccolò vedo con sorpresa la banda dei bersaglieri che suona una marcia militare sotto un gazebo sull’angolo con il lungarno del Tempio. Lungo la dirittura vedo l’arco gonfio di aria compressa che segna la mezza maratona. Un’ora e cinquantasette minuti, sono in anticipo di tre minuti sulla tabella di marcia.

Lungarno Colombo, casa. Ho vissuto qui per trentacinque anni, per una quindicina ho corso abitualmente all’Albereta o comunque lungo l’Arno. Comunque negli ultimi anni vengo spesso per variare un po’ il paesaggio, perché da queste parti la valle si restringe, le colline sono molto vicine al fiume e il paesaggio è molto vario, invece a valle delle Cascine c’è una pista ciclabile molto più lunga che da questo lato, ma è molto più monotona, non si vede niente al di là della duna che separa la pista dalla piana, si può vedere il fiume con la sua fauna ma alla fine ci si annoia. Qua invece si può ammirare un panorama punteggiato di ville annidate su colline verdi, osservando si scoprono dettagli che non si conoscevano.

Dopo il ponte da Verrazzano siamo verso il ventitreesimo chilometro. Adesso sto andando a 5.41, è l’andatura che avrei dovuto tenere fin dall’inizio. Adesso ci sono, ma “salendo”, e quindi vuol dire che sto inesorabilmente rallentando anche se di poco e sono arrivato a una velocità accettabile, anzi quella desiderata. Il difficile sarà mantenerla. Ricordo ancora con sgomento un allenamento in cui dopo il venticinquesimo ho cominciato inarrestabile a rallentare fino a 6.30, era la prima volta che mi succedeva, però da allora mi è successo anche altre volte nei lunghissimi, prima un rallentamento che mi porta a sforare i 6 minuti al chilometro, e poi dopo altri cinque chilometri tra il venticinquesimo e il trentesimo il rallentamento si fa netto fino a 6.30 e poi 7.00 tra i trenta e i trentacinque.

All’altezza del Ponte da Verrazzano scansare le pozze è veramente difficile. E poi ogni gesto deve essere commisurato e limitato allo stretto necessario, non mi sogno neanche di fare balzi o deviazioni repentine di traiettoria: basterebbe una storta o anche solo un affaticamento anormale per mettere in crisi tutto il sistema.
Costeggiamo la mia vecchia scuola elementare e poi, dopo dei giardini al cui centro c’è un campetto da calcio in cui ho tirato i miei primi calci, tra quarta e quinta elementare, che poi furono anche gli ultimi. Calci: come difensore ero temuto, i calci erano al pallone e dintorni. Attaccante avvisato, attaccante meno disinvolto.
Si è creato un gruppo o meglio mi sono affiancato a due ragazzi, con la maglia uguale, di un gruppo sportivo.
- Di dove siete, faccio solidale. Stiamo andando alla stessa andatura, la solidarietà vien naturale.
Il più vicino a me dice: - Di Cuneo
L’altro specifica: - Di Alba... provincia di Cuneo.
- Sì, sì, faccio io rassicurante, so dov’è Alba.
Spero di non averli offesi, non volevo dire che non avevo bisogno di aiuto, ma solo tributare alla loro città l’importanza che merita. Tartufo a parte.
- Tu sei di Firenze-Firenze?
- Sì, e mi alleno spesso da queste parti. Non è facile trovare percorsi lunghi in città, se non vuoi fare salite, visto che poi in corsa non ci sono salite se non minime.
- Eh sì, fanno loro, queste non sono salite, se vuoi vedere delle salite dovresti venire dalle nostre parti.
Ma non si stanno vantando, è solo rassegnazione mista a fierezza: non ho dubbi che dalle loro parti ci siano ben più salite che qui a Firenze e soprattutto sento la fatica di quelle salite nella loro voce.

Comincio a cercare Emanuele. Abbiamo fissato che lui mi avrebbe aspettato da dopo la mezza. Avrebbe parcheggiato dalle parti di piazza Ferrucci e avrebbe cominciato a camminare fino a che non lo avessi raggiunto, in modo da correre non più di una quindicina di chilometri. Quindi lo so che è presto però comincio a controllare le persone sul marciapiede, temendo che possa non vedermi mentre passo.

Al Saschall c’è musica alta e due ragazze con due immense parrucche colorate che ballano sotto la pioggia incitando noi che passiamo.

Quando passo davanti alla RAI in via Aretina cerco sempre con gli occhi il secondo piano della casa di fronte, in cui abitava un compagno di classe delle elementari, una volta che passavo di lì lo vidi in terrazza. Stefano! Ciao! Non lo più visto da allora, chissà se abita ancora lì, probabilmente no, e comunque non lo vedo neanche stavolta. A dire la verità non sono neppure sicuro di ricordami davvero di averlo mai visto in terrazza mentre passavo da lì, forse sapendo che lui abitava lì tutte le volte che passavo di lì guardavo se per caso non lo vedevo in terrazza. Però poi non l’ho mai visto e mi è rimasto il ricordo fittizio di averlo visto in terrazza mentre passavo e di averlo salutato. Un falso ricordo.

Finora, non ho visto nessuno che conoscessi tra i passanti e i curiosi, Emanuele di solito saluta almeno due o tre persone ogni volta che ci alleniamo. Comunque neppure a farlo apposta poche decine di metri dopo la casa del mio compagno delle elementari vedo sul marciapiedi una collega che mi sta guardando passare senza riconoscermi, allora mi tolgo il cappello e le grido:
- Fulvia!
Lei mi guarda stupita e mi sorride, sono già passato. Sono contento che finalmente ho incontrato qualcuno che conosco.

Ormai siamo nella seconda metà della corsa, ci stiamo indirizzando allo stadio intorno al quale si compierà il trentesimo chilometro, sarà un momento brutto, lo temo molto. Proseguiamo in via Aretina tornando verso il centro. La strada si restringe in quella che è la parte vecchia della via, quando ero piccolo questa era via Aretina: da qui fino a piazza Alberti. Per me non aveva significato di strada che va a Arezzo. Anche perché io pensavo che si chiamasse via Retina.
Il gruppo è sgranato, non ci diamo noia, a dire la verità non sto osservando molto gli altri intorno a me. Ormai da qualche chilometro sto monitorando, facendo finta di non farci particolare attenzione, i pedoni, chiunque stazioni o si muova sui marciapiedi che costeggiamo nella speranza di individuare Emanuele. Ce la potrei fare anche da solo, sono sicuro, però ormai mi aspetto di trovarlo e quindi temo di sorpassarlo inavvertitamente e non avrei modo di comunicare in nessun modo, non ho con me il cellulare e poi sarebbe idiota mettersi a telefonare mentre corro.
Il Madonnone. Chiamato così per via di un tabernacolo con l’immagine affrescata di una Madonna. Deviamo per via San Salvi sulla parallela lungo la ferrovia. In fondo alla strada vedo una porzione del cavalcavia dell’Affrico che collega piazza Alberti con la zona dello stadio. Ci sono già dei corridori che ne scendono in direzione del centro, hanno già oltrepassato lo stadio e il trentesimo chilometro lasciandoselo alle spalle, mi impedisco di soffermarmi a invidiarli. Io ho la mia corsa e il mio destino da compiere. Giriamo a destra per passare sotto al ponte. Una banda sta suonando al riparo del ponte. Imbocchiamo via Mannelli costeggiando la ferrovia alla nostra destra. Siamo in leggera discesa. Tra poco arriverò al ristoro. Procedo a finire il minipack già aperto. Di Emanuele nessuna traccia.


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venerdì 14 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 9

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15km


L’uscita dalle Cascine avviene passando accanto al Circolo del Tennis. Poche centinaia di metri prima del secondo ristoro ai 15km, subito dopo lo Sferisterio, ingerisco, sempre lentamente, la seconda metà del minipack e poi catturo, sempre senza fermarmi, due bicchieri di acqua e sali, ne prendo due per sicurezza visto che buona parte me la butto sulle gambe. Bagnato, sono già bagnato. Sarebbe diverso immergere un piede in una pozzanghera e avere una scarpa che fa cià-cià, ma addosso non sento alcuna differenza.

Riprendiamo il viale, scendiamo nel sottopasso e risaliamo verso il ponte alla Vittoria. Planiamo con leggerezza sulla rotonda che circondiamo tenendo la corda, anche passando sul marciapiedi per poi imboccare il lungarno Santa Rosa. Passando davanti alla Trattoria Vittoria vedo il signor Giovanni sulla porta che guarda la corsa insieme a un cameriere, non mi vede, vorrei salutarlo, ma riconoscermi con cappellino e tutto non è neanche facile. Sono già oltre e lascio perdere.

Lungo l’Arno, davanti al Seminario Maggiore il vento si intensifica e ferisce i passanti, quasi tutti stranieri, che ci osservano e ci incitano. A parte il freddo, mi inorgoglisce passare quasi indifferente accanto a loro che si stanno coprendo come possono per ripararsi dal vento e dalla pioggia, mi sento forte anche se fa un freddo boia, ma non c’è certo bisogno di giacconi e ombrelli, si può fare anche senza. Una volta che sei bagnato. Ma mi rendo conto che visto dall’altra parte ci possa essere incredulità che si possa prendere un tale freddo e acqua volontariamente e con la sola ricompensa di aver percorso quarantadue chilometri.

Via dei Serragli. Io questa strada la odio, dico sottovoce a me stesso. Perché è in salita fino a piazza della Calza. Ora, che sia in salita sfido chiunque ad accorgersene nella vita reale, anche qui saranno pochissimi gradi o frazioni di grado ma è percepibile al corridore.
Un vecchietto e una vecchietta con l’ombrello cercano di attraversare la strada. Ne sono impediti dal flusso continuo di corridori. La vecchietta guarda stupita la fiumana e chiede:
- O quanti sono?
- So una sega! Ribatte lui.
Avrei voluto rispondere con precisione, diecimilaquattrocento iscritti, ma non so quanti siano partiti esattamente e neppure quanti ne siano già passati da lì e soprattutto quanti ne restino ancora da passare. Rido e quello accanto a me, con un cappellino verde, si gira a guardarmi. Sorride anche lui. Accetto il suo sguardo sorridente e gli spiego la storia dei due vecchietti. Avevo bisogno di contatto umano ormai era circa un’ora che non parlavo con nessuno.

Facciamo affiancati anche via Romana, provo un dolorino al ginocchio sinistro, scuoto un po’ la gamba, allungo il passo accentuando il movimento della gamba e del ginocchio, speriamo che non sia niente e che passi. Effettivamente in piazza San Felice è già passato e non lo ricordo neppure più.
In piazza Pitti c’è una delle pochissime fontanelle ancora esistenti in Firenze, insieme a quelle che resistono in qualche giardinetto.

All’altezza di ponte Vecchio il mio vicino, siamo sempre affiancati, mi chiede: ma quello è ponte Vecchio. Io gli spiego che sì, è lui, e che poi ci passeremo sopra verso la fine. A quel punto non resisto, devo fare conversazione, gli chiedo di dov’è, visto che non è di Firenze. È campano ma vive a Milano e lavora a Vicenza, mi dice sorridendo. Ha già corso una decina di maratone e quest’anno è già la terza. Gli chiedo spiegazioni perché non è usuale farne più di un paio in uno stesso anno. Mi spiega che si iscrive sempre a due maratone a breve distanza di tempo l’una dall’altra, in modo da evitare che un leggero infortunio o un inconveniente imprevisto gli mandi a monte la preparazione. Lo ascolto interessato, ho appena sperimentato sulla mia pelle quanto abbia ragione. Solo che, continua, stavolta ha corso Milano e è andato tutto bene, poi Treviso, e poi già che c’era ha provato Venezia e ha finito pure quella. Stavolta però non si sente bene e si fermerà alla mezza. Siamo quasi a venti chilometri. Stiamo andando ancora sui 5.30, sempre troppo veloce per me, devo rallentare. Mi sento bene.
All’altezza di piazza Demidoff mi apro un altro minipack e cerco di ingerirlo a piccoli sorsi prima di arrivare al ristoro.


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mercoledì 12 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 8

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10km


Al ristoro rallento prendendo un bicchiere di sali. Non ho sete ma bisogna essere avveduti e umili: manutenzione ordinaria del mezzo. Anno scorso ho schifato i sali e ho preferito la dolcezza del tè. Poi alla fine ho sofferto di crampi. Quest’anno attenzione all’alimentazione e all’idratazione: gel e acqua con sali.

Un mese fa, arrivando in senso opposto, non si vedeva neppure il ponte, era mattina presto e la nebbia non si era ancora alzata. I cavi e le strutture rosse del ponte che si materializzano al mio incedere ritmato sono un bel ricordo. Mentre guardo intorno a me luoghi che conosco bene ma ogni volta osservo con piacere, sento alcuni corridori dall’accento del nord che ammirano la bellezza del corso del fiume e del parco. Sorrido, fiero di potermi allenare qui tutto l’anno.

Sto bene, non provo alcun dolore, non mi sento stanco, le Cascine passano rapidamente anche se il percorso, che avevo già provato qualche mese fa, non è bello dato che nel tratto tra Agraria e la tranvia in pratica si va in direzione della città lungo l’Arno, in direzione opposta nel viale interno, via della Catena, e di nuovo verso la città in viale degli Olmi, e mi ricordo che mi aveva dato un senso di claustrofobia, di girare su me stesso. Si capisce che il percorso aveva bisogno di qualche chilometro perso con l’inversione della partenza (e con la cancellazione di tutto un tratto in Oltrarno oltre Porta Romana) che vengono aggiunti qua e là. Questa è una di quelle aggiunte e in una striscia di cinquanta metri ci sono tre fiumi che scorrono separati da una siepe o poco più. Però, mentre sono lì, faccio solo attenzione a evitare le pozze, tenere la traiettoria migliore e correre correttamente, a preferire il lato sinistro dove l’asfalto ha la pendenza che mi dà meno fastidio alla caviglia sinistra, non è detto che mi dia fastidio, però nei mesi scorsi la caviglia sinistra mi ha dato fastidio, soprattutto per aver usato delle scarpe non antipronazione. Avevo voluto comprarmi per capriccio un paio di Nike Lunarglide quando ero negli Stati Uniti a un outlet, non avevo resistito per una cinquantina di euro potevo togliermi uno sfizio, che qui mi sarebbe costato più di cento. In più la pubblicità sosteneva che erano autoadattive, buone sia per iperpronatori che per supinatori. Per precauzione le avevo usate per le ripetute e per gli allenamenti sotto i dieci chilometri, ci stavo comodo e sono leggere. Il fatto è che a un certo momento la caviglia sinistra ha cominciato a farmi male. In particolare soffrivo la pendenza a schiena d’asino delle strada e avevo notato che stando sul lato sinistro, contromano, la caviglia mi dava meno fastidio. Dopo una seduta dal fisioterapista e aver smesso di usare quelle Nike il fastidio era scomparso, ma ho continuato ad avere la percezione che correndo sulla sinistra la caviglia fosse più a suo agio. Quindi senza alterare le traiettorie ottimali cerco di prediligere il lato sinistro.

Correre alle Cascine mi piace, tranne il sabato e la domenica magari in tarda mattina quando è bel tempo. Allora sembra di essere in via Calzaiuoli il sabato pomeriggio. Quasi non si passa, oltre a ciclisti e pattinatori ci sono folle di correnti di tutte le età e tutti gli stili, che procedono nelle due direzioni senza alcuna convenzione, ognuno alla sua velocità. Una cosa che odio ancora di più è rientrare verso casa da un lunghissimo e passare da qui, per pura logistica, dato che abito non lontano, e io sono stravolto e sto ansimando mentre affronto magari il mio trentesimo chilomentro se non di più, e qui mi vedo superato con fare indifferentemente superiore da qualcuno che magari trotterella per neppure un giro, che tra parentesi è circa di sette chilometri. Lo so che è stupido perché ognuno corre per sé e nessuno sta facendo la gara con nessuno, ma quando quello, che io riconosco essere un non-adepto, un non fissato potrebbe dire lui, mi supera, io gli vorrei dire: guarda che io ho appena fatto trenta chilometri e se tu riesci a andare un po’ più veloce di me c’è un motivo, prova te a fare trenta chilometri e poi se ne riparla. Però non gli dico niente, sennò mi prenderebbe per matto e poi non ho fiato da sprecare, devo arrivare a casa e mancano ancora pochi chilometri ma se potessi tagliare, taglierei però io faccio in modo che questa tentazione io non ce l’abbia, per cui se voglio arrivare a casa devo percorrerli tutti i chilometri che mancano e attraversare le Cascine. In quei momenti io le odio le Cascine. In tutti gli altri casi ormai mi sento come a casa, conosco ogni metro di asfalto, so cosa mi aspetta.


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martedì 11 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 7

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5km


Siamo alla fortezza, la prospettiva sulla discesa del sottopasso mi offre una sorta di ingorgo, il traffico di centinaia di persone che riempiono tutte le quattro corsie disponibili, ma non dobbiamo rallentare né fermarci, il flusso è continuo, solo apparentemente è più denso rispetto al resto dei viali. Noto con fastidio che per colpa del sottopasso alla discesa segue una salitella breve ma pur sempre una salita.
Nel sottopasso della ferrovia subito dopo ci sono passanti che, approfittando di quel comodo riparo dalla pioggia, ci osservano e ci incoraggiano. Non avevo mai considerato quel tratto di strada, solitamente trafficatissimo e nero per lo smog continuo. È un non-luogo, e se ci vedo qualcuno camminare lo compatisco perché sta respirando solo gas di scarico. Di nuovo una leggera salita, è una sensazione nuova, di solito quel tratto lo  percorro nel senso opposto, quindi in discesa, e soprattutto in auto.
Mi tengo sulla destra, all’altezza di Porta a Prato gireremo a destra in via Ponte alle Mosse. Siamo quasi alla porta e sento alla mia destra: Hi Marco, how are you?
È Aaron, l’amico di Beppe, il campione dell’understatement, di solito ha un paio di pantaloncini color prugna larghi e stropicciati, e una maglia qualsiasi, quasi che fosse uscito a comprare il giornale una pigra mattina d’estate, ma torno subito a casa. Stavolta è un po’ più vestito, ha un sorprendente calzamaglia lunga e una maglia tecnica, niente cappellino né gilet impermeabile, ci mancherebbe altro. Mi sorride sereno e sorpreso. Sorpreso sono io che mi abbia riconosciuto, ci siamo visti solo un paio di volte, sono vestito in modo diverso e ho pure il cappellino in testa. Boh, forse è stato proprio il cappellino a farmi riconoscere. Ma se ce l’hanno tutti un cappelino con visiera o senza, o una pezzuola o un cappuccio. Insomma resta un mistero ma Aaron mi ha riconosciuto. Scambiamo un paio di frasi, gli chiedo se ha visto Beppe, poi gli sorrido e lo lascio libero di proseguire, mi saluta sorridendo e si allontana per via Ponte alle Mosse.
Comincio a prepararmi per vedere e soprattutto farmi vedere da Elena, che dovrebbe essere all’angolo con via Paisiello, in pratica a cinquanta metri da casa, via Paisiello è la mia strada per le Cascine ogni volta che esco da casa per un allenamento. Questo era il motivo per cui nel mio appunto del giorno prima avevo annotato il possibile orario di passaggio in via Paisiello, per ricordarlo a lei. Il gruppo è piuttosto folto anche perché la via si restringe, non so in che punto si sarà messa, se fosse stata logica si sarebbe messa sull’esterno della curva diciamo sull’angolo con via Benedetto Marcello, in modo da vedere bene il gruppo che arriva e avere una visuale più a lungo. Se mi metto a destra le passerei più vicino, però la traiettoria ottimale sarebbe a sinistra. Se però non fosse dove ho pensato io, che era fin troppo logica come soluzione, se sto davvero a destra e poi lei è a sinistra va a finire che non mi vede. Sto nel mezzo, cercando di non tenermi troppo sotto il gruppetto che mi precede e lasciare un po’ di spazio senza ostacoli davanti a me.
Ecco la curva, l’Osteria de’ Golosi dove andiamo a pranzo di tanto in tanto, il semaforo con via Benedetto Marcello e Elena non c’è né a destra né a sinistra, non posso rallentare o fermarmi, non c’è e basta, imbocco via Paisiello e via verso le Cascine. Cerco di non rimanerci troppo male, si era svegliata presto quando mi sono alzato io e poi ha avuto problemi a riaddormentarsi e quando alla fine si è riaddormentata a quel punto ha fatto tardi, anche perché poi le ci vuole un’ora per lavarsi e prepararsi, non ce l’ha fatta, non stava neanche bene. Ora che ho giustificato la sua assenza sono più tranquillo. Siamo al Dopo-Lavoro Ferroviario, radi passanti ci osservano dal marciapiedi. Alessandra e Roberto mi avevano chiamato apposta ieri sera, se non fosse piovuto sarebbero venuti a vedermi proprio qui, tra il DLF e la Manifattura dei Tabacchi, in fondo alla strada. Ma piove, di certo non sono venuti con la bambina nel passeggino. Ciononostante guardo con attenzione ogni passante, giriamo a sinistra verso le Cascine senza incontrare nessun volto noto.
Al piazzale delle cascine si gira sulla destra costeggiando la facoltà di Agraria e è difficilissimo scansare le lagune che ci sono, anche perché sei sempre in gruppo, quando vedi quello davanti a te che infila dentro una pozza schizzando ovunque, è già troppo tardi, tanto c’è sempre qualcuno alla tua destra o alla tua sinistra che ti impedisce di fare scarti troppo repentini. Però io lo so che lì ci sono sempre delle pozzanghere immense, soprattutto sulla curva e dopo, dove parcheggia l’autobus, e allora allargo un po’ la traiettoria evitando di tenere come al solito la corda.
Le Cascine. Che differenza dall’anno scorso, a questo punto ero al trentunesimo chilometro, proprio davanti alla facoltà di Agraria mi aspettava Leonardo, ricordo ancora il sollievo, quasi la commozione, quando lo riconobbi che mi aveva visto e si era tolto la giacca lasciandola alla fidanzata, poi oltrepassò la striscia bianca e rossa per affiancarmi e accompagnarmi fino alla fine. Di lì a poco avrei avuto una crisi, psicologica e poi fisica con una serie di crampi. Se non ci fosse stato lui non ce l’avrei fatta.
Invece stavolta siamo ancora freschi, abbiamo fatto sì e no 8 chilometri, a un’andatura di 5.25 che per questa distanza è di tutto riposo, anzi di solito comincio a entrare a regime adesso. E infatti è un piacere (o quasi) passare i viali alberati fino al monumento dell’Indiano per poi costeggiare l’Arno. Quante volte sono passato da qui, a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni.
Anno scorso il 28 dicembre nevicò e io non volli perdermi lo spettacolo delle Cascine tutte bianche, mi vestii pesante, berretto, guanti e via. L’unica cosa un po’ esposta erano proprio i piedi, dato che le scarpe da corsa sono ovviamente molto leggere e traforate. Dall’ippodromo, dove il viale è chiuso alle auto, c’era solo la scia di qualche motorino e dovevo correre con attenzione nel solco per non affondare in dieci centimentri di neve, incontrai tre o quattro runners e qualche nonno con il nipotino a toccare la neve.
E quando quest’estate sono venuto dopo l’uragano che aveva abbattuto decine di alberi vecchissimi, e qui lungo l’Arno non si riusciva neppure a passare, tanto che dovetti correre lungo il sentiero sull’argine per evitare tutti gli alberi che erano caduti verso il viale, completamente invaso dalle loro chiome.

Siamo al nono chilometro, tra un po’ ci sarà il primo ristoro. Apro il primo minipack e me ne spremo come con un dentrifricio quasi metà ma lentamente, in modo da ingerire un piccolo sorso per volta.
Il tratto che costeggia l’ippodromo è in leggera salita, me ne sono accorto l’anno scorso quando al trentaduesimo chilometro questa ulteriore piccola difficoltà mi aveva messo in crisi. Da allora tutte le volte che sono passato da questo viale che arriva a costeggiare il Mugnone che si getta in Arno all’altezza del ponte all’Indiano, ho ripensato che si tratta di una salita, un grado forse, ma di salita, e dirò di più: io riesco a vederla la salita, mentre non vedo la discesa quando lo percorro in senso opposto, ma penso soltanto di correre con grande facilità e invece si tratta di discesa, al contrario la salita riesco a vederla e a sentirla. Per poi riscendere leggermente per un centinaio di metri fino al curvone in corrispondenza del busto cosiddetto dell’Indiano per continuare lungo il fiume.


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lunedì 10 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 6

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1km


Giù per viale dei colli, attento a non inciampare nei sacchi di nylon abbandonati da chi mi precede, a non urtare gli altri, a evitare collisioni con chi sopravviene e ti sorpassa invasato, con chi procede lentamente magari in coppia o in gruppo creando una sorta di barriera mobile. Fino a che  non finisce la discesa non guarderò il tempo, anzi quando arrivo a piazza Ferrucci vedo che sono quasi a due chilometri, aspetterò i due km esatti e poi pigierò lap e da quel momento guarderò il passo medio sui cinque km come prefissatomi.  L’asfalto è bagnato ma non ci sono pozze, almeno non plateali. Il gruppo è continuo ma non ci diamo noia. Quando, costeggiando la scuola dei sott’ufficiali dei carabinieri, entro in viale Giovine Italia scattano i due chilometri: sto andando sui 5.25, troppo veloce, già 5.40 è ambizioso, ma mi sento bene, mi sembra di andare senza alcuna forzatura, la pagherò poi, lo so, però avrò guadagnato un po’ di tempo, tanto se poi devo calare comunque e finire a 6.30, tanto vale che ci arrivi con anticipo. Mi rendo conto che non è un gran ragionamento però sul momento la sensazione di stare bene è troppo forte. E poi mentre sono lì tra tutti gli altri mi sembra di andare fin troppo piano, come potrei rallentare ulteriormente?
Sono da solo, devo controllare che tutto proceda come dovrebbe, mi concentro sul movimento delle braccia, verifico che il bacino sia incurvato e mi sforzo di sentire la cordicella che mi tira in vita. La cordicella del Massini.

Era fine settembre, avevo ormai cominciato la preparazione da più di un mese e mi rendevo conto che stavo andando più piano di prima dell’estate, ero indubbiamente aumentato di volume, e quindi anche di peso, anche se avevo attentamente evitato la bilancia, e facevo una gran fatica a allenarmi. Sapevo che c’era la possibilità di un aiuto esterno, il famoso Fulvio Massini, di cui Leonardo mi aveva tanto parlato, ma a me sembrava un’esagerazione, un prendersi troppo sul serio, io che correvo per diporto, che mi rivolgevo a un allenatore professionista, sebbene sulla rivista di running che leggo, la pubblicità mostrasse stage e allenamenti di gruppo con lo scopo dichiarato di correre in modo sano, che sarebbe stato proprio il mio obbiettivo: fare la maratona in modo sano. L’ultima spallata che mi fece superare ogni tentennamento fu il venire a sapere che anche Beppe si era rivolto a lui pochi giorni prima. La sera stessa inviai un mail per richiedere un appuntamento per una visita. Mentre uscivo dall’ufficio ricevo una telefonata sul cellulare da un numero sconosciuto. Era lui, ipse, quello che per me era solo un nome, un personaggio, di cui leggevo sempre con attenzione la rubrica sull’allenamento sulla mia rivista preferita. Fissai per un paio di giorni dopo e il ventinove settembre duemiladieci cambiò la mia vita.
Vabbè sono stato enfatico e lapidario, però devo dire che, a posteriori, ha segnato una differenza tra un prima e un dopo, anche nel mio modo di essere e di apparire (ho perso sette chili di peso, e le persone lo hanno notato, anche perché non ero obeso), nel come mi sento (provate a correre con uno zaino e due portatili dentro e poi toglietelo e capirete cosa intendo), nel come mangio (anche adesso che ho abbandonato ogni dieta).
Cosa avrà fatto mai direte voi.
Mi ha misurato tutto, compreso l’imbarazzante misura delle pliche ossia pinzare la ciccia su braccia, gambe e soprattutto nelle zone crudeli come fianchi e busto, e vedere che tra le tenaglie resta un bel po’ di ciccia che non è solo pelle né tanto meno muscolo è imbarazzante.
Un suo assistente mi ha valutato l’appoggio dei piedi sia da fermo che in movimento, con e senza scarpe da corsa.
Mi sono vestito per correre e siamo usciti, lui in bici, io di corsa e ce ne siamo andati verso il piazzale michelangelo. Agli ASSI siamo andati in pista e mi ha guardato correre dandomi delle indicazioni sulla postura, ancora oggi mentre corro e sono stanco mi concentro sull’inclinazione del busto, sul movimento delle gambe e delle braccia, sulla posizione della testa, in modo da essere più efficiente e stancarmi meno. Ma la prima cosa che verifico è la cordicella. Quando corri, mi ha detto, devi sentire come se avessi una cordicella in vita che ti tira e tu corri per agevolare quella cordicella. Quindi il bacino sarà inarcato e tenderà in avanti e il corpo sbilanciato in avanti ti costringe e ti invita a correre. 
Poi mi ha fatto fare quella che si chiama Prova Conconi per determinare la velocità di riferimento, quella che si può anche ricavare dal miglior tempo sui 10-12km. In questo caso si trattava di partire lentamente e di aumentare di poco ogni cento metri fino a arrivare alla massima velocità oltre la quale non è più possibile andare.
La cosa tragica è stato che il risultato di questa prova è stato che la mia velocità era 5.08 quando a maggio, ossia solo quattro mesi prima, riuscivo a fare 10km a meno di 5.00. d’altronde se mi ero deciso a ricorrere a lui, ci sarà stato un motivo.
Dopo le prove in pista mi ha fatto anche fare vari tratti in salita e in discesa correggendomi la postura, l’inclinazione, l’appoggio. Poi siamo rientrati, con lui che mi incoraggiava con apprezzamenti sui miglioramenti e sempre notando errori, come il braccio sinistro che muovo meno del braccio destro.
Di nuovo alla scrivania, mi ha chiesto che allenamento avevo fatto fino ad allora e come intendevo allenarmi, può sembrare ovvio ma nessuno può costringerti a fare qualcosa che non vuoi, quindi è inutile che lui pensi un programma di allenamento basato su 4 o 5 sedute se poi io non ne voglio, o posso, fare più di tre alla settimana. Quindi mi ha personalizzato un programma di allenamento partendo dall’ultimo lungo fatto la domenica precedente.
Poi mi ha chiesto cosa mangiavo durante tutto il giorno. E lì è cominciata la parte che più attendevo e temevo, la famosa dieta che mi permettesse di perdere qualche chilo, tre o quattro pensavo io, per tornare dagli attuali 88.5 kg a un livello precedente all’estate di circa 84-85 kg, invece lui mi stupisce annunciandomi che avrei dovuto perdere 6 kg prima della maratona, ossia in due mesi netti. Il problema è stato passare dalla teoria, in cui tutto è fattibile, alla pratica, quando appena uscito mi sono accorto che mi aveva proibito ogni alcolico, compreso un bicchiere di prosecco, ormai rito abituale prima di cena. Telefonato a Elena, abbiamo deciso che la dieta sarebbe cominciata dal giorno seguente e siamo andati subito a prendere addirittura un aperitivo fuori, se si doveva disobbedire che fosse in grande stile.
A posteriori non è stata una brutta dieta, certo i primi giorni ho sofferto, dato che mangiavo molto meno di quanto fossi abituato, e ogni sia pur piccola quantità di cibo ammessa diventava preziosa e desiderata.
In due mesi ho perso ben 7 kg e nelle ultime settimane prima della maratona ho cominciato a vedere notevoli differenze soprattutto nelle ripetute e negli allenamenti veloci. Ma soprattutto mi sentivo bene e non soffrivo più alcuna fame, anzi la dieta non disturbava neppure l’allenamento.

Va tutto bene, la cordicella è a posto, il braccio sinistro si muove come il destro, la mandibola non contratta.
Davanti alla Carducci, la mia scuola media, affianco una ragazza bassina e tondotta che corre con un maglione di lana beige. La osservo, è veramente molto bassa, sarà sul metro e cinquanta non di più, piuttosto abbondante, però pare decisa e per niente intimorita, mi fa sentire un po’ idiota con tutto il mio allenamento e la mia mania per i particolari, quasi che un piccolo dettaglio possa impedirmi di arrivare al traguardo mentre questa ragazza, che pare lottare contro la natura, mi corre a fianco e per giunta con un maglione di lana, io che metto solo capi tecnici, soppesando la pensantezza al grado centigrado di temperatura ambientale. Mentre siamo affiancati e la sto soppesando, si sfila una manica del maglione e cerca con fatica di toglierselo. L’aiuto tirando verso l’alto il maglione, sempre correndo, le sorrido e mi ringrazia, poi lentamente la sopravanzo e non la vedo più.

Piazza donatello. Faccio attenzione a minimizzare il percorso, c’è una riga verde sull’asfalto che segna il percorso ma si può fare meglio, mi sento avvantaggiato perché, conoscendo la città e il percorso, so in netto anticipo come sarà la prossima curva pertanto posso spostarmi sul lato interno con calma e senza fare brusche variazione di traiettoria.

Mi supera sulla sinistra una coppia, devono essere stranieri, nordici direi, lei ha pantaloncini cortissimi e una maglietta a maniche corte. Però la pelle delle braccia e delle cosce è purpurea. Non è magrissima però si vede che è tosta. Come culo non ha un granché. Sì perché, lo devo ammettere, faccio di tutto per distrarmi e rimandare, differire, procrastinare, ritardare quanto più possibile la stanchezza e ogni pensiero fosco. E per fare ciò osservo tutto quello che mi circonda, le maglie, le casacche, ognuno ha una scritta di un gruppo sportivo, o la sponsorizzazione di una trattoria, o se è un singolo, come lo sono anche io, ne ammiro il vestiario tecnico, la combinazione dei colori, la pesantezza o la leggerezza, i calzini, le scarpe, e poi i cappelli, le fasce di tutti i colori, meglio se sgargianti. E, nelle ragazze, anche il culo. Mi vergogno ma è vero. È possibile che nel momento topico dello sforzo fisico, della fatica, con il freddo, il vento e la pioggia, quando mi passa accanto un essere femminile io mi soffermi a valutarne esteticamente il fondoschiena? Sì, è possibile. E magari pretenderei che una ragazza o una donna che si cimenta in una maratona oltre che tosta e allenata abbia anche una silouhette sinuosa e armoniosa. È assurdo, lo so, come se gli uomini fossero tutti dei kouroi greci, mentre si vedono delle forme curiose, dei passi sbattuti per terra, dei movimenti inarmonici, delle forme extralarge che non sembrano essere compatibili con uno sport come la corsa. Pertanto lo stesso accade con le donne, anche se in generale sono in numero assai minore e forse più serie nell’approccio degli uomini. Comunque io mi aspetto sempre che quella donna abbia anche un bel culo. Ecco che allora mi soffermo a valutare. Anche perché l’abbigliamento da corsa è spietato: non nasconde niente o quasi.
Insomma, non per giustificarmi ma anche questo rientra nella mia strategia della distrazione.
Come sarebbe distrazione ascoltare la musica. Ma in gara no, non si può. Al mio pàdoan che me lo chiedeva sono stato categorico: in gara è vietato. C’è chi si porta il lettore mp3 ma sono pochi e... sospendevo, sottintendendo: sono dei deboli, dei debosciati.
Però sarebbe assai utile, la musica, per distrarsi, per avere anche un supporto psicologico, un aiuto per tenere il ritmo, certe canzoni poi ti possono esaltare, commuovere, sostenere.
Ma noi non sia così deboli. Peccato.

In piazza della libertà sento un nugolo di fischietti e un coro: si tratta di due gruppi di volontari che corrono spingendo a turno la carrozzella di due disabili, tutti infagottati nell’impermiabile di nylon d’ordinanza, sorrido e mi commuovo guardandoli, mi fa sentire bene stare lì con loro, anche se stiamo faticando e prendendo un sacco di freddo e di pioggia. In realtà ancora non sento ancora la fatica. In viale Lavagnini vedo qualche brandello di tuta abbandonato, qualcuno che fa una sosta dietro una siepe. Per fortuna il maltempo ha ridotto i passanti.

Mentre mi vestivo mi ero posto svogliatamente il problema: perché indossare i polsini? Per asciugarmi il sudore mentre piove e il polsino stesso sarà più zuppo della fronte che dovrebbe asciugare? Però, mentre mi ponevo questa domanda a cui non avevo pensato una risposta preventiva, mi sono infilato i due polsini neri che avevo messo anche l’anno scorso. Scaramanzia? In ogni caso, fastidio non dovrebbero darmene, mi sono detto mentre proseguivo la vestizione.
Adesso che oltrepasso il semaforo di via Santa Caterina di Alessandria, mi rendo conto che ho le mani gelate, non è tanto il freddo quanto la pioggia e il vento. Ho le mani di un rosso scuro. Cos’è il genio? Fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione! Vedo gli inutili polsini e mentre continuo a correre ne faccio scorrere uno fino a coprire la mano e le nocche da una parte. Lo stesso faccio con l’altro polsino, a quel punto basta ritrarre i pollici anche loro sotto: aaah! Che bello, in pochi istanti mi sento riavere e posso dimenticarmi le mani che avevano monopolizzato la mia attenzione. Il genio. E la scaramanzia! Non oso pensare quanto ancora avrei resistito con le mani gelate, visto che non era passata neanche mezz’ora... ti immagini ritirarsi per il freddo alle mani? Sarebbe stato ridicolo a raccontarla e avrebbe destato ben poca compassione o solidarietà: affronti quarantadue chilometri di corsa e ti fermi per un problemuccio alle mani, che non fanno alcuno sforzo se non quello di oscillare?


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sabato 8 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 5

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0km: la partenza 

Per entrare nelle gabbie ci dobbiamo separare, dato che in base al pettorale siamo in settori diversi. Adesso sono solo, tra centinaia di sconosciuti, sotto la pioggia. Però mi abituo presto. Quest’attesa non vorrei che terminasse più. Come prima del dentista. Quando arrivo e mi tocca aspettare in sala di attesa, sperando che non ci siano altri, ci sono attese che non mi piace condividere, sono troppo personali, intime, comunque mi metto lì e aspetto. Per evitare di ingigantire l’ansia adotto ogni tecnica possibile, in particolare negli anni sono riuscito a sviluppare una sorta di pacificazione che parte dal respiro, che si regolarizza e rallenta anche, mi ritiro, mi accuccio in me stesso, apprezzo ogni piccolo particolare, la musica se c’è la radio in sottofondo, sfoglio con interesse una rivista sia pure sgualcita e invecchiata precocemente, il tutto con estrema attenzione e cura. Forse addirittura sorrido. Ho raggiunto un equilibrio, una pace che mi rendo conto verrà turbata, da un momento all’altro, dall’assistente che mi chiama, toccherà a me, dovrò alzarmi e andare a sedermi sulla poltrona del dentista e insomma alla fine accadrà l’evento per cui mi trovo lì effettivamente, solo che in quel momento, quell’equilibrio mi dispiace che stia per rompersi e in sotto sotto spero che l’evento non accada più o accada il più tardi possibile. E anche qui sono in attesa, sotto la pioggia, tra centinaia anzi migliaia di persone che attendono come me, tremando, agitandosi per cercare di scaldarsi, di essere pronti allo scatto iniziale. E io sono lì accucciato dentro me stesso insensibile ma osservo tutto intorno a me, come se fossi lì per caso e mi stupisco di tutto ciò che mi accade intorno.

L’anno scorso ho vissuto la ola. La partenza era dall’altra parte, verso San Miniato, e soprattutto non pioveva, anche se era freddo. Le gabbie si erano aperte, facendo compattare il grasso serpentone dei partenti. Sapevamo che il sindaco avrebbe dato il via con il colpo di pistola, ma non vedevamo niente da in fondo al gruppo. Poi cominciarono a volare vestiti verso l’esterno, a destra e a sinistra, e questo lancio proseguiva allontanandosi dalla partenza e via tutti si toglievano l’ultima maglia rimasta, i pantaloni ce li eravamo già tolti da qualche decina di minuti, e la gettavano di lato, dalla parte più vicina, e il ritardo con cui ciascuno procedeva rispetto a quelli davanti che avevano reagito un istante prima, fece sì che potei apprezzare questa ola di indumenti che schizzavano in aria, via via sempre più vicina a me fino a sorpassarmi nel momento stesso in cui anche io e i miei vicini ci siamo disfatti della felpa, e subito dopo il colpo di pistola e via!
In realtà mi ci vollero cinque minuti almeno per arrivare all’arco gonfiato che indicava la linea di partenza. Poi assistetti alla cerimonia della pipì collettiva: da pochi metri dopo il via, giusto appena la folla sui marciapiedi si diradava, tutta la siepe di alloro sulla destra del viale era una serie di schiene di uomini multicolori senza mani. Pensare di aver penato tanto per arrivare a quel momento, che ognuno oltre a cercare di percorrere quarantadue chilometri cercherà di limare anche un minuto sulla sua prestazione precedente e poi ritrovarsi a perdere una ventina di secondi, almeno, non lo so quanto ci vuole ma solo per sciogliere il fiocco dei pantaloncini (5 secondi), estrarre (1 secondo), svuotare (10 secondi se la vescica non è abbastanza piena, anche 15-20 se proprio scoppia), reinserire (1), rinfiocchettare (5) fa un totale da 22 a 32 secondi. Fossero stati per semplicità di calcolo 42 secondi, questa manovra avrebbe peggiorato di 1 secondo la media di percorrenza. In ogni caso il nostro real-time sarebbe peggiorato di 22-32 secondi, che possono sembrare pochi ma se alla fine fossi arrivato in quattro ore, zero minuti e 20 secondi, avrei avuto il rimpianto di non essere stato sotto le quattro ore solo per non aver fatto l’ultima pipì al momento giusto.

Stavolta niente ola, la procedura di partenza è diversa. Innanzitutto le gabbie, ossia i raggruppamenti, sono fatti in base al pettorale e non, come anno scorso, in base alla scelta, del partente, in base a che tempo vorrebbe fare. Evidentemente tutti aspirano a fare meglio di quanto sono realmente in grado, soprattutto quando stanno per partire, e si vanno a piazzare davanti a altri che invece li dovranno sorpassare, deve essere la sindrome del cinquantino al semaforo, anche chi ha un motorino lentissimo, soprattutto in accelerazione da fermo, non può fare a meno di insinuarsi tra le macchine e piazzarsi davanti a tutti in primissima fila, magari di traverso in modo che nessuna auto possa anticiparlo. Ma sarà solo questione di secondi, e poi verrà superato mentre lui ancora arranca a partire… eppure lo sapeva che tanto lui sarebbe partito piano e che quindi partire davanti a tutti non gli avrebbe dato alcun vantaggio, se non per un brevissimo lasso di tempo, rispetto a partire qualche decina di metri dietro, e avrebbe reso solo la vita più difficile agli altri, che dovranno stare attenti a non urtare quell’insetto che svolazza incontrollato davanti ai loro cofani. E si vede che questa sindrome prende anche il maratoneta, per cui quest’anno hanno deciso loro in base ai tempi in maratona precedenti dichiarati all’iscrizione, in un momento più lucido e sicuramente più verificabile. E mi sa che hanno pure sgamato alcuni furbetti come il mio collega Marco che aveva dichiarato un tempo ma non aveva mai corso una maratona prima…
Stavolta la partenza è guidata, ci cominciamo a muovere camminando verso la vera partenza e il via sarà dato solo dopo che la testa del gruppo sarà arrivata alla linea di partenza.
E in più piove.
Quando cominciamo a muoverci, consumo l’ultimo rito del cerimoniale: il fruttino. È una gelatina alla frutta che adoro e che avevo comprato il giorno prima alla fiera presso l’expo. A questo punto ho fatto tutto quello che dovevo fare prima, adesso resta solo da correre e da resistere fino alla fine.
Ci muoviamo e ci arrestiamo più volte fino a che il gruppo non si mette davvero in moto.


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