Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

sabato 15 novembre 2014

Noi non speculiamo sulle cadute altrui (ma ci piace correre con gli amici)

Sabato mattina, viale degli olmi, due ragazzi, due uomini per chi li vede dall’esterno, corrono insieme. Corrono affiancati ma non fanno lo stesso allenamento
Uno dei due fa venti chilometri a velocità abbastanza sostenuta mentre l’altro fa giusto otto o nove chilometri a ritmo lento, giusto per affaticare le gambe in vista del lunghissimo della mattina dopo.
In realtà io e Gigi ci siamo messi d’accordo per partire nello stesso luogo e alla stessa ora per passare insieme un’oretta e fare due chiacchiere, visto che oramai è difficile allenarsi insieme ma in questo caso le andature collimavano.
Mentre corriamo Gigi inciampa su una deformazione dell’asfalto, perde l’equilibrio, resiste ma alla fine cade, toccando terra ruota su un fianco, ammortizza la caduta. Si rialza, si accerta di non avere niente di rotto, solo qualche escoriazione alla mano destra, io gli tolgo qualche foglia raggrinzita dalla schiena. Ripartiamo.
“Ora scriverai della caduta”, mi fa. Io non capisco però poi mi ricordo anche lui come tutti i compagni di corsa oramai mi conoscono in quanto scrittore di corsa e pertanto qualunque cosa accaduta potrebbe essere da me scritta senza alcuna pietà. Alcune volte erano consapevoli già mentre le vicende accadevano che sarebbero state fonte di ispirazione per un racconto e se ne beavano. Stavolta non ci avevo minimamente pensato ma ho taciuto, sotto sotto mi fa piacere che temano di essere spiati (“Questo vede tutto, nota tutto e scrive tutto”, citazione colta).
Ma no Gigi, noi non speculiamo sulle cadute altrui, non basta un evento per fare un racconto, ci vuole ispirazione e lo sguardo che osserva. È lo sguardo che fa il racconto non la cosa in sé. “Sì, - tu dirai, - però alla fine hai scritto della mia caduta, come avevo previsto”.
Sì, cioè no, ho scritto per denunciare la non scrittura di un racconto su questa caduta, che non merita un racconto, dato che non è eccezionale, non è esemplare, non mi ha stupito, sei stato bravo a ruotare ma avevo visto di meglio qualche mese fa (“Ore dodici:runner a terra!).
Poco dopo che ho lasciato Gigi mi sento salutare da dietro: è Andrea in bici da passeggio. Non ci vediamo spesso, qualche volta durante una gara, l’ultima che ricordo è la Firenze-Fiesole, ci siamo agganciati poco prima dei Bosconi, e anche lì come ogni volta abbiamo parlato di libri, io lo aggiorno su romanzi che parlano di corsa, lui di narrativa nordica, mi ha fatto conoscere Arto Paasilinna e un romanzo sulla corsa, di un altro nordico, bellissimo ("Via della trincea")
Un’altro mezzo giro delle cascine è passato.
Mi è rimasto solo un’altro giro per completare i miei venti chilometri ma a questo punto non è difficile concentrarsi sull’allenamento, visto che finora non ho fatto che chiacchierare con due amici.


La morale? Non ci avevo pensato ma rileggendo il tutto direi: non basta una caduta per farmi venir voglia di scrivere, ma talvolta anche solo aver corso e chiacchierato con un amico, se non due, può bastare a farmi venire in mente altri pensieri e altri ricordi. Che può valer la pena di scrivere.

giovedì 13 novembre 2014

Non farti cadere le braccia (Canzoni sulla corsa)

Canzoni per la corsa, ossia da ascoltarsi mentre si corre, sono abbastanza ovvie: ci sono compilation selezionate in base al kbps in modo da abbinarle al passo che si vuole tenere.
Ma canzoni che parlano della corsa mi paiono più interessanti e inusuali. Pertanto ho deciso di parlarne quando ne trovo una, un po' come faccio per i libri, ma solo quelli che ritengo dei veri romanzi oltre che parlare della corsa 
[vedi la Biblioteca del Runner].
Casualmente ho riascoltato varie canzoni di Bennato nei giorni scorsi e ho scoperto che in "Farti cadere le braccia" non solo si menziona la corsa (come metafora, ormai frusta, della vita) ma addirittura ci si sofferma sulle sensazioni che si provano in "una lunga corsa" mentre gli "altri stan correndo ancora intorno a te"...
Un motivo in più per amare questa bella canzone che, come molte canzoni del primo Bennato, sono autentiche poesie.

Non farti cadere le braccia
L'entrata è sempre quella, 
ma portiere io non ti conosco 
io che vivevo qui 
io che ormai scordare più non posso... 
dalla cucina una voce cara 
mia madre che mi dice: 

Non farti cadere le braccia, 
corri forte, va più forte che puoi. 
Non devi voltare la faccia, 
non arrenderti né ora né mai! 

Su per le scale buio 
ma la luce corre dentro agli occhi 
sono un bambino io 
con ancora i graffi sui ginocchi 
dalla cucina una voce cara 
mia madre che mi dice: 

Non farti cadere le braccia, 
corri forte, va più forte che puoi. 
Non devi voltare la faccia, 
non arrenderti né ora né mai! 

Non so... non so... 
se ti è capitato mai 
di dover fare una lunga corsa 
ed a metà strada stanco 
dire a te stesso "adesso basta!" 
Eppure altri stan correndo ancora 
intorno a te... e allora 

Non farti cadere le braccia, 
corri forte, va più forte che puoi. 
Non devi voltare la faccia, 
non arrenderti né ora né mai! 
Non puoi fermarti ora 

No, no, no, no, no, no, no 
Lo so ti scoppia il cuore, 
dici anche di voler morire, 
dici è meglio che correr così, 
ma no, non puoi fermarti, 
non farti cadere le braccia, no, no, no... 
non devi voltare la faccia, 
non arrenderti né ora né mai!

Per ascoltarla (anche se non è un video) basta andare su youtube

domenica 2 novembre 2014

Pronatori di tutt'Italia unitevi (recensione delle Nike ST18)

Non intendo fare pubblicità, oltretutto gratuita, ma torno sulle scarpe. Solo per chi è un povero pronatore come me, gli altri, quelli con i piedi buoni o perlomeno non piatti, saltino pure questo post.
Sono anni che cerco delle scarpe che non siano le solite Nike Structure Triax o le Adidas Supernova Control (da qualche anno: Sequence): molti pensano che la Adidas semplicemente non faccia scarpe da running, mentre l'avversione per la Nike è un fatto tutto mio: mi pare troppo commerciale, vuoi mettere indossare delle Asics come è più figo? e invece sono anni che so per certo che le Structure Triax sono le scarpe che mi vanno bene ma hanno la sfortuna che essendo per pronatori, solitamente pure pesanti, e quindi lenti, sono considerate dalla Nike delle scarpe per sfigati, per tapascioni, e pertanto si sforzando di farne delle versioni con colori quanto più insignificanti possible: grigio, grigio topo, grigio scuro con – botta di vita - un bordino arancione.
Finché è uscito a settembre 2014 la versione 18, pubblicizzata addirittura sulle riviste di running: io guardando la pubblicità di queste scarpe piuttosto oscene ma invero strane e propagandate come il non plus ultra della tecnologia, poi vedo il nome del modello e stento a crederci: Structure Triax 18! Inutile dire che qualche giorno dopo ho approfittato per visitare il nuovissimo Nike Store di via Torino a Milano interemente dedicato al running.
La colorazione non è delle mie preferite dato che è blu scuro. Però ha il baffo esterno rosa e quello interno verdolino... la suola è bianca all’esterno e blu e rosa all’interno... a dire la verità non mi piacevano per niente però strane erano strane... soprattutto la suola all'interno sembra che abbia una sorta di impalcatura rosa che è bruttina ma deve essere l'arma segreta...
Quando ho chiesto a uno commessa sovradimensionata se potevo provarle ha attaccato a chiedere se ne conoscevo le caratteristiche, l’ho stoppata con malcelata sufficienza: ce le ho da anni, dalla versione 12 mi pare...
Appena indossate, sebbene usualmente avrei scelto un mezzo numero sopra, mi calzavano benissimo, soprattutto la tomaia, di un tessuto privo di parti in plastica, avvolge il piede in modo molto piacevole, il supporto sotto l’arco si avverte con una sensazione di sicurezza. Dopo averci fatto tre o quattro uscite tra dieci e quattordici chilometri senza problemi ho affrontato un trentaquattro: il risultato è stato che non mi sono accorto dei piedi e delle caviglie, e mi sono potuto concentrare sul resto: grande risultato. Certo, poi non è che camminassi granché bene ma tenuto conto degli scorsi lunghi e del fatto che erano comunque una bella distanza, resta un buon risultato per le scarpe.
Per fare un confronto, le Asics Kayano 20 sono molto più ammortizzate ma molto meno sostenenti sotto l’arco, alla fine mi risultano più stancanti per le caviglie. Forse la Asics GT2000 sono più sostenenti.
Le Brooks GTS 14 sono meno ammortizzate dalle Kayano ma restano comunque molto strutturate.
Mi mancano da provare le Adidas Sequence Energy, quelle con l’aggiunta della nuova suola “Boost” (quella che sembra polistirolo).
Tornando a queste Nike ST18: sembrano anche minimizzata come tomaia: molta meno plastica e meno e imbottitura, ne esce una scarpa più snella ma piacevole attorno al piede, forse alleggerita ma molto supportiva sotto l’arco.

Insomma, pronatori di tutta Italia forse possiamo finalmente avere un paio di scarpe strambe ma efficaci.

giovedì 9 ottobre 2014

La pubblicità fa male (ri-correre... senza morale)

Vi sarà capitato di incappare in una pubblicità della Asics in televisione (una pubblicità su canali nazionali indirizzata ai runners: fantascienza solo pochi anni fa). Se non vi è capitato fateci caso, è carina: lei, giovane e bella esce per un allenamento in città, urban running si dice ora, e corre, corre a perdifiato, oltrepassa ponti, sale, scende e corre sempre spedita con postura plastica, da pensare: che bello correre, che bel gesto atletico, poi prova a rivederti anche solo riflesso in una vetrina e l’effetto è tutto un altro... Terminato l’allenamento un po’ di stretching appoggiata al muro, in una tranquilla viuzza, da una porticina fuoriesce lui, giovane e bello, la faccia pulita, lo sguardo innocente. La vede e si butta: “Dove vai a correre?”. Lei con un’increspatura di incertezza: “Al parco?” Lui: “Posso venire con te?”. “Certo” fa lei e con felice e malcelata rassegnazione, e riparte con lui, non ancora il suo Lui ma si capisce che galeotta sarà la corsa. Lo slogan: Run & run. Grazie Asics.
Questo il prologo che ho dovuto anteporre al racconto perché stava nella mia mente da qualche parte e, visto che ha giocato un ruolo forse determinate in quel che segue, dovevo essere sicuro che il lettore potesse averlo anche lui immagazzinato da qualche parte nella sua memoria.

Trasferta di lavoro. Città sul mare del nord. Due colleghi con cui ho già trascorso ieri sera una cena molto piacevole propongono di cenare insieme anche stasera. Accetto volentieri ma, premetto, voglio andare a correre. Loro però vogliono cenare presto: alle sette e un quarto passano a prendermi in hotel, io faccio due conti e scatto: taxi, hotel, cambio rapido, almeno 45’ ci stanno, speravo di più ma mi posso adattare, 15’ per doccia e rivestirmi: ce la posso fare.
Alla fine scopro che sono stato troppo ottimista e devo restringere ulteriormente l’uscita: aumentando il ritmo e limitandomi a poco più di otto chilometri riesco comunque a compicciare qualcosa di sensato.
Alle 19.25 sto finendo di vestirmi quando squilla il telefono: è David, non riescono a trovare un taxi, in città il maltempo ha cresto il finimondo, restano in hotel, niente cena.
Resto interdetto e doppiamente insoddisfatto: è inutilmente presto per andare a cena, era stata una loro idea, e ho fatto un allenamento troppo breve e neppure così veloce: d’altronde il vento, la pioggia e il lungomare reso sporco dalla sabbia portata dal vento del mare del nord non avevano facilitato la performance.
E Chiara? Lei sta nel mio albergo, magari è tornata e verrebbe a cena. La chiamo:
“Sto uscendo”, annuncia soddisfatta.
“?”
“Vado a correre finalmente!”
“Ah... io ci sono appena andato... ma quanto corri? Se non stai fuori troppo posso aspettarti”
Negoziazione tra runners ma Chiara è una ragazza decisa: dieci chilometri con sovrappiù di due di riscaldamento ha detto di fare e tanto farà.
“Vabbè, niente, faccio io, me ne andrò a piedi verso il centro per trovare un ristorante decente”. Lei mi spiega la strada più breve, ci metterò quindici venti minuti, la saluto.
La richiamo: “Ma stai in palestra o corri fuori?”
“Pensavo fuori, sembra che non piova adesso”
“No, perché mi è venuta in mente un’idea idiota... mi rivesto e vengo a correre con te!”
“Sì dai così mi aiuti a tenere il passo!”
“Cinque minuti alla reception”
Per farvela breve ho corso altri nove chilometri abbondanti, inclusivi di riscaldamento, nel  buio contro vento e pioggia e in pure in maniche corte (l’unica maglia a manica lunga che avevo era ancora fradicia, i pantaloncini li avevo messi casualmente su un calorifero e si erano asciugati). Non me la sono sentita di fare lo sborone e di reggere tutti i suoi dodici chilometri: un doppio allenamento di venti chilometri intramezzati da pausa di venti minuti (con doccia) mi è sembrato fuori luogo per un martedì qualunque. A parte il chilometraggio ho fatto un allenamento assurdo: niente riscaldamento, otto chilomentri veloci, due chilometri lenti e sette chilometri a passo tranquillo.
La morale?
La chiedo a voi.
Tira più...
Vooolgari!
No, io avevo pensato una morale più delicata: la pubblicità fa male, e nel video dovrebbero scrivere da qualche parte in caratteri minuscoli: “Attenzione: le attività mostrate sono eseguite da personale opportunamente addestrato e non sono assolutamente da imitare, se non previa certificazione medica e sotto la guida di un allenatore preparato. La corsa può nuocere gravemente alla salute”.
Oppure: di lui si potrà dire che gli ha nuociuto non tanto il correre quanto il ri-correre.
Oppure nessuna morale, nessun pensiero recondito, ha corso e basta.


Vorrei poter asserire, per rassicurare Elena, che Chiara comunque è brutta e antipatica. Vorrei davvero poterlo fare.

mercoledì 3 settembre 2014

Bam...bini, gat...tini, fido ... (lasciamoli giocare, i bambini)

È possibile che un essere perfetto (si fa per fare un esempio), che si allena sei giorni su sette (se Elena non lo sapesse, sarebbe meglio, comunque), in 3 discipline diverse (questo oramai l’ha capito), possa infortunarsi con un gioco da bambini?
Museo di scienza di Glasgow. Tre corsie in sintetico lunghe una decina di metri. Tutta un’apparecchiatura per rivedere i propri movimenti, provare la propria velocità.
Appena due bambini di circa dieci anni si sono sfogati sotto gli occhi amorevoli della nonna, mi avvicino con fare sornione.
Mi piace vincere facile?!?
Appoggio lo zaino. Mi metto in posizione, non ci avevo pensato: eretta? Si scatta male. A terra? Non esageriamo. Una via di mezzo, non facciamola troppo lunga. Pigio il pulsante: steady, ready, Go!
Ahi!
Il dolore è stato pungente, subito sotto la chiappa destra.
Neanche un metro. Cammino con indifferenza fuori dalle corsie, tamponandomi la chiappa e soffiando a denti stretti: “mi sono fatto male, mi sono fatto male”.
Elena mi deride con gentilezza, pensa che esageri... come al solito, avrà pensato, mi preoccupo per qualunque dolorino.
Io ho avuto paura, un tipo di dolore che mi era ignoto e gli articoli letti su contratture, stiramenti e i cosiddetti strappi, non mi fanno ben sperare. Però poi camminando non mi fa male, e proseguo la visita del museo.
Da allora ci ho corso senza problemi (addirittura tre uscite sui venti chilometri) e sono anche andato in bicicletta, il tutto senza provare alcun dolore.
Poi un controllino a una caviglia e mi viene in mente di raccontare anche questo episodio. Mi stendo supino e Stefano-mani-di-fata, Stefano il pacifico, Budda-Stefano, mi dice:
“E questa buca?”
O porca miseria, soffio contro la carta su cui sto appoggiando la testa.
“Ti faccio una foto”
Me la fa vedere. Innanzitutto vi sfido a riconoscere un primissimo piano del dietro delle vostre cosce, non dico i polpacci, quelli riusciamo anche a vederceli, ma il bicipite femorale, insomma quel tratto di gamba che va dal gluteo a dietro il ginocchio: potrebbe essere di chiunque altro. Sembra anche di gomma. E quello sono io?
D’altra parte mi ha fatto per sbaglio pure un filmino... sono proprio le mie gambe.
“Vedi, sulla gamba destra c’è un avvallamento, qui sulla sinistra invece non c’è.”
Incredibile ma indubbio.
“È uno strappo muscolare”
Eh, l’avevo capito,
“Ti mando la foto”
No. Grazie.
“Ti mando anche il filmino”
No. Grazie. No.
“No, non importa”
 Mi rivesto, devo andare in ufficio.
“Non ti preoccupare non è niente, non inficia le prestazioni, hai i muscoli delle gambe potenti che compensano”...
Porca miseria un pezzo della mia gamba si è rotto e non lo posso riattaccare, quasi peggio che mi si fosse rotto un osso.
“Se vuoi ti puoi fare un’ecografia”
“E poi?” lo guardo dubbioso, ma dentro covo una noce di speranza.
“Niente, per capire cosa è successo”
Ti pareva.
“Lasciamo perdere”
“Puoi comunque cominciare a riallungare il muscolo, piano piano, è passato quasi un mese...”

La morale: innanzitutto i bambini vanno lasciati giocare.

Poi una conferma: beata ignoranza! Mi sono allenato per un mese, sovrapponendo pure la parte finale della preparazione per un triathlon olimpico con l’inizio della preparazione per una maratona senza alcun problema. Poi vengo a sapere che ho fatto tutto con una buchetta dietro la gamba e mi spavento?

martedì 8 luglio 2014

Correre: odio o amore. Due mezze recensioni (America di J. Baudrillard; The faith of a writer, J.C. Oates)

Recensione parallela di due libri che non sono specificatamente dedicati alla corsa ma che della corsa in alcune parti parlano e quindi io ve ne parlo solo relativamente a queste parti.

Chi mi abbia segnalato America di Jean Baudrillard come libro sulla corsa non lo ricordo, so solo che mi sono appuntato questo titolo e questo nome. Poi facendo acquisti in rete e approfittando di un forte sconto ho cercato e trovato questo titolo. E l’ho acquistato. Senza sapere chi fosse questo Baudrillard e senza sapere di cosa parlasse il libro. Certo intitolandosi America potevo avere qualche sospetto. Quando mi sono disposto alla lettura mi sono accorto che si trattava di una raccolta di saggi (e non di narrativa come speravo) sull’America e in particolare sulla decadenza contemporanea sociale, politica e sopratutto culturale degli Stati Uniti. In tutto ciò che c’entra la corsa? Mi chiedo. E intanto andavo avanti. E dopo una dozzina di pagine ecco una traccia. Mentre, nella prima metà degli anni ottanta, vaga per il vasto paese osservandone i costumi, il nostro ha molteplici occasioni di osservare una razza particolare e assai frequente a quelle latitudini: i runners o joggers.
Alla fine di più di cento pagine che ho scorso rapidamente (ammetto che non mi interessava l’argomento né mi ha appassionato un’analisi che la spessa patina dei trent’anni che sono passati rendeva immune a una lettura odierna), ho rintracciato in tutto cinque pagine sulla corsa.
Le sue osservazioni sono quelle dell’antropologo bianco che osserva una tribù di curiosi autoctoni.
Mi permetto di riportarvi alcuni stralci esemplificativi e autoesplicativi.
A proposito della maratona di New York dice che è “uno spettacolo da fine del mondo. Si può parlare di sofferenza volontaria come di schiavitù volontaria? [...] tutti cercano la morte, la morte per sfinimento che fu quella del maratoneta di duemila anni fa [...]. Anch’essi sono portatori si un messaggio vittorioso, ma sono in troppi, e il loro messaggio non ha più senso, se non quello del loro stesso arrivo, al termine del loro sforzo – messaggio crepuscolare di uno sforzo sovrumano e inutile. Collettivamente, porterebbero piuttosto il messaggio di un disastro della specie umana, dato che la si vede degradarsi di ora in ora col susseguirsi degli arrivi [...].”
Poi a proposito dei runners che ha osservato in giro per New York, il quadro è piuttosto impietoso ma in alcuni tratti mi riconosco abbastanza, quindi non mi indigno più di tanto:
“Si può fermare un cavallo imbizzarrito, non si ferma un jogger in azione. [...] guardatevi soprattutto dal fermarlo per chiedergli l’ora, sarebbe capace delle peggiori reazioni.”
E ancora:
“Ha lo sguardo stralunato, la saliva gli cola dalla bocca, ma non fermatelo, vi picchierebbe o continuerebbe a saltellarvi davanti come un indemoniato.”
Per poi concludere assimilando il runner che corre da solo, e quindi isolato, fino al proprio esaurimento, a fenomeni di autodistruzione piuttosto comuni in quegli anni negli stati uniti, come l’anoressia e l’obesità.
Non ho alcuna intenzione di mettermi qui a dibattere sulle teorie dell’autore: posso comprenderle ma le vedo anche offuscate da una prospettiva tutta esterna, gli manca tutto il resto ma d’altra parte non si può pretendere che un telecronista sappia giocare a calcio o uno storico dell’arte dipingere.
Detto ciò, se qualcuno qualcuno a cui avete fatto un torto di cui non vi ricordate, vi regalasse questo libro cercando di incantarvi dicendo che parla di corsa, rifiutate cortesemente o se impossibilitati dalla vostra bontà d’animo, dopo che questi se ne è andato NON LO APRITE e riponetelo al sicuro. A richiesta potete utilizzare quanto sopra per dargli a intendere che ci siete cascati.
La mia è solidarietà tra runners.

America       
Jean Baudrillard       
SE, 2000 (edizione francese: 1986)

Dall’odio all’amore per la corsa: ecco una raccolta di testi di Joyce Carol Oates che non finirà nello scaffale dedicato ai libri sulla corsa bensì in quello sulla scrittura e quindi non ne dovrei parlare qui. Però un saggio di una decina di pagine che vi è contenuto “Running and writing” è, come dice il titolo stesso, incentrato tutto sulla corsa.
In queste poche pagine la prolifica scrittrice americana enuncia alcune semplici considerazioni sulla corsa che chi ama scrivere e correre conosce già ma dette con le semplici e nitide parole di una grande scrittrice è come se le scoprisse per la prima volta.
Innanzitutto l’analogia tra sogno e corsa: come nel sogno la mente è senza corpo e vola e si muove senza peso, così nella corsa pulsa al ritmo del corpo che si sposta rapido.
Poi la funzione ispiratoria della corsa: ecco che la scrittrice durante la corsa nel pomeriggio riesce a risolvere quello su cui si era dibattuta inutilmente la mattina standosene seduta al tavolo.
Infine una verità che chi corre e scrive conosce bene per esperienza diretta: quello che l’autrice pensa, costruisce e si ripete durante la corsa non ha altro che trascriverlo non appena tornata a casa. Non solo correre le permette di scrivere ma anche di “vedere” con una coscienza aumentata quello che immagina e scrive durante l’atto motorio.
Tutto qui. Pura verità.

‘Running and writing’ nella raccolta "The faith of a writer"
Joyce Carol Oates
HarperCollins, 2003


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sabato 28 giugno 2014

Non divaghiamo. Semmai tri-vaghiamo

Quando faccio una cosa per la prima volta, sento la necessità ineludibile di raccontarla a tutti, come se quella cosa esistesse solo da quel momento e proprio grazie a me.
E lo stupore di coloro ai quali racconto la vicenda mi conferma nella mia convinzione e mi autorizza, mi incoraggia a continuare nell’opera di divulgazione.
Incredulità mista a fastidio mi causa l’incontrare qualcuno che quell’esperienza l’ha già vissuta da  tempo o, peggio ancora, ripetutamente e quindi per lui adesso rappresenta una banalità. A quel punto non posso far altro che, ah davvero?, e svicolare prima possibile per evitare che quello parta con il suo racconto di innumerevoli vicende che replicano, se non superano in difficoltà, drammaticità o solo interesse, la mia, banalizzandola e retrocedendola a racconto di fatto usuale, per niente unico.
Quanti scrittori per esempio hanno pubblicato libri, racconti, lettere a figli appena nati: un momento unico e indelebile nella vita di ogni uomo e ogni donna ma a meno di non produrre un capolavoro della letteratura quasi ogni lettore avrà avuto lo stesso momento unico e indelebile, solo leggermente diverso, con diversa ambientazione e personaggi. E pensa: potevo scriverlo anche io. Tra il dire e il fare eccetera eccetera, però vero è che il tema non è originale.

E allora? Allora lo scrittore o il raccontatore in genere dovrebbe pensarci due volte prima di ammorbare gli altri con racconti unici ma in fondo comuni.
Ci penso. Pensato? Ci ripenso. Fatto. Ora vi racconto una vicenda unica che ho vissuto sabato ventuno giugno.

A dire la verità è una vicenda unica che ho vissuto insieme a altri duecentocinquanta persone, però vabbè per me, e anche per Matteo che era con me, è stata una vicenda nuova e, fintanto che non la ripetiamo, unica.
Insomma io ve la racconto lo stesso perché sono sicuro che almeno qualcuno dei miei venticinque lettori non l’ha vissuta e se ne stupirà. Almeno un paio degli stessi venticinque l’hanno esperita già e ripetutamente, anzi magari mi hanno aiutato con amorevoli consigli prima. Mi scuso per annoiarli con questo racconto, potete anche fermarvi qui e non ve ne vorrò, ma è irrefrenabile: devo raccontarla.

I più attenti dei miei lettori si erano già ammoscati del fatto che avevo ibridato questo luogo di corsa con alcuni racconti che mi vedevano in veste non già di runner, bensì di ciclista. Ah! Orrore! Sì lo so, la pensavo anche io così, da purista. Però poi mi sono accorto che esiste tutta un folto gruppo di amici, parenti, colleghi, insomma persone vere e a me vicine che incomprensibilmente invece di correre vanno in bici con eguale passione, soddisfazione. E che celano lo stesso dubbio e sospetto nei confronti di coloro che invece di andare in bici preferiscono incomprensibilmente correre a piedi.
Qui partirebbe una riflessione più generale sul Diverso: non mi pare il caso, comunque avete capito l’antifona e quindi ve la potete sviluppare per conto vostro una volta terminata la lettura di questo racconto.
Se bici e corsa spesso rappresentano due mondi separati e talvolta distanti (non mancano i frequentatori di entrambi, ma cambiano veste – oggettivamente – e forse anche mentalità passando dall’uno all’altro), il nuoto fa storia a sé: chi lo odia, chi lo ama, tutti (o quasi) l’hanno dovuto imparare, è noto che “fa bene” e effettivamente fa bene, soprattutto a chi pratica altri sport più traumatici, come per esempio la corsa.
Ci siamo quasi: corsa, bici e nuoto.
Se poi lo famo strano, ossia tutti e tre consecutivamente senza requie, ecco il triathlon.
Ammetto che la premessa è forse più estesa del racconto stesso. se avete ancora voglia vi racconto lo strano caso del runner che si è fatto triatleta, o più umilmente che ha provato a vedere di che si trattava e ha portato in fondo quella che per lui rappresentava un’impresa.
Invece si trattava solo di un triathlon Sprint, ossia 750m di nuoto, 20km di bici e 5km di corsa. Chi ha la benché minima dimestichezza di uno di questi sport a questo punto ha già  pensato: così poco? Ma non ci vuole nulla! Esatto: per chi fa nuoto fare una trentina di vasche da 25m è un allenamento leggero se non un riscaldamento. Lo stesso dicasi di 20km per un ciclista e di 5km per un runner: il minimo, anzi forse quasi troppo poco per valer la pena di cambiarsi e uscir di casa.
Messa in termini di tempo, in termini grossolani, si tratta di 15’ di nuoto, 45’ di bici e 25’ di corsa, ossia, come pura somma aritmetica 1 ora e 25 minuti a cui vanno aggiunti alcuni minuti per indossare scarpe e casco e prendere la bici e poi lasciare la bici, togliersi casco e cambiarsi le scarpe, e si arriva a un’ora e mezza.
Vista così la questione cambia un po’: si tratta comunque di uno sforzo continuativo e non blando di un’ora e mezza, per un runner potrebbe essere assimilata – sempre grossolanamente – a una mezza maratona.
Fatta questa ulteriore premessa tecnica arrivo al punto, ossia alla vera difficoltà che ho riscontrato e che non traspare dai numeri: normalmente in questo tipo di gare, a parte talvolta quelle più brevi, come lo Sprint, la frazione di nuoto si svolge in acque libere: mare o lago. Ognuno ha i suoi pro e i suoi contro.
Fatto sta che io e Matteo per la nostra prima esperienza abbiamo scelto la gara Ironlake di Barberino del Mugello che ovviamente utilizza l’invaso di Bilancino per la parte acquatica.
Ora, a parte simpatie o antipatie per la balneazione nei laghi, la prima anomalia che mi sono trovato a fronteggiare è che in acqua non si vede niente: ossia è tutto di un colore verde più o meno scuro a seconda dell’intensità del sole e opaco: non riuscivo neanche a vedere le mie mani mentre nuotavo: per uno che è abituato a nuotare in piscina, in cui puoi controllare il movimento, seguire la riga per andare diritto e sapere quando girare, guardare quelli che ti nuotano davanti e intorno, non vedere niente e dover alzare la testa per capire se si sta andando nella direzione giusta è un discreto shock.
Avevamo fatto una prova il fine settimana precedente e il risultato non era stato confortante: una sorta di ansia ci prendeva e la nuotata si faceva faticosa e pur avendo nuotato solo 400m mi sentivo esausto.
Al momento della partenza della gara vera la cosa si è complicata: tutti allineati sotto un ponte di legno, siamo partiti in duecentocinquanta puntando tutti a una stessa boa che era laggiù verso il centro del lago. La fisica ha voluto confermarci una volta di più la legge dell’incompenetrabilità dei corpi e dopo poche decine di metri avevo persone che battevano braccia e gambe davanti, dietro, a destra e a sinistra, se non sopra: l’acqua rembrava ribollire dalle fitte onde in tutte le direzioni e a un certo punto mi sono dovuto fermare per sopravvivere: ero incastrato tra qualcuno a destra e qualcuno a sinistra e la nostra traiettoria era convergente e per nulla parallela. Vincendo la tentazione di fermarmi e uscire da quella baraonda ho insistito. In tutto ciò non riuscivo, letteralmente: non riuscivo a nuotare se non tenendo la testa fuori dall’acqua, come le signore che al mare non vogliono sciuparsi la pettinatura. Inspiegabilmente dopo circa trecento fatti in questo modo ho cominciato a nuotare normalmente e da lì sono arrivato a uscire dal guado infernale.
Il tifo di Emanuele, Elisa, Sofia e Lorenzo (i bimbi non sono nuovi a imprese del genere come quello striscione a Firenze 2012) mi ha aiutato – scuotevo sconsolato la testa mentre li guardavo - a correre verso la zona cambio. Elena invece non riesce a incitarmi: le resta sul viso un’aria preoccupata che mi viene a me da incoraggiare lei!
La formalità e il rigore che vigono in zona cambio meriterebbero un racconto a parte, mi limito a dirvi che ognuno deve appendere per il sellino la bici al palo orizzontale in corrispondenza del proprio numero e disporre a terra dalla parte della catena le scarpe da bici e quella corsa, sul manubrio troveranno alloggiamento il casco con gli occhiali e il pettorale (che non si può indossare nuotando: lì il numero è scritto sulla cuffia). Disporre la propria roba fuori dagli spazi indicati dai giudici o non avere il casco allacciato mentre si transita in zona cambio causano la squalifica.
La frazione in bici, per me piuttosto difficoltosa, l’ho vissuta come una scampagnata in solitaria, cercando di agganciarmi a qualche altro concorrente senza mai riuscirci.
Arrivato a mettermi le scarpe da corsa ero doppiamente rinfrancato: innanzitutto mancava poco alla fine e poi ero a casa. Finalmente ho recuperato qualche posizione, non che puntassi a chissà che piazzamento, ma l’orgoglio è l’orgoglio e quella era una gara. Però non sono riuscito a spingere quanto mi ero immaginato, complici – penso – la stanchezza per le frazioni precedenti e il caldo: non l’ho detto ma la gara è partita alle 13.45 del 21 giugno, e a quel punto mentre i primi avevano già fatto le interviste di rito e si intrattenevano al Pasta Party, io mi aggiravo su una stradina di terra battuta al livello dell’acqua e, se si fermava quel refolo di vento che ci ha salvato la vita, le vampate di calore che venivano dal lago erano asfissianti.
Mi è sembrato che questi cinque chilometri fossero più lunghi del previsto, però vedere l’arco dell’arrivo con Elena, Elisa, Ema e i pronipoti è stato un bella emozione.

È stata una bella esperienza, e la stanchezza tutto sommato accettabile, forse perché più “distribuita”. Comunque, per onestà, all’ora di cena non mi reggevo in piedi.

La morale: non sarò mai un ciclista né tanto meno un nuotatore, sono e resto un runner. Però l’allenamento per un triathlon ti fa sentire meglio fisicamente rispetto a un allenamento altrettanto duro per la sola corsa. La gara di triathlon è variegata anche se probante. E anche l’ambiente è allo stesso tempo più competitivo e più famigliare, solidale, forse perché è una nicchia ancora più raccolta di “fissati”. Sì, forse i “fissati del triathlon” sono dei fissati più fissati dei “fissati della corsa”. E più variopinti.


PS: E poi avevo un bellissimo tutù, no: body, si chiama body!, con il quale si nuota, si salta in bici sperando che si asciughi prima dell’eventuale discesa, e poi si corre e a quel punto il bagnato è solo sudore.

domenica 15 giugno 2014

‘La corsa’ di John L. Parker (un bel romanzo davvero)

“Il miglior romanzo sulla corsa mai scritto", Runner's World, recita la copertina. Neanche una fascetta: la copertina. Già questo sarebbe bastato a impedirmi l'acquisto se avessi visto questo volume in libreria. Ma io non ho avuto questo problema dato che me lo sono fatto regalare per il compleanno.

Se sia il miglior romanzo sulla corsa che sia mai stato scritto non lo so, per adesso posso dire è un bel romanzo, non un capolavoro della letteratura ma onesto e ben scritto. Certo, dopo aver letto “Born to run” di Christopher McDougall, mi pareva difficile poter leggere un libro sulla corsa che mi piacesse di più.
Non so se mi è piaciuto di più o di meno, ma mi è piaciuto molto. Va detto che sono due oggetti diversi: mentre quello, pur esaltante, era una narrativa comunque di tipo autobiografico, una sorta di reportage, questo invece è un vero e proprio romanzo, un classico romanzo di formazione, con una bella ambientazione e bei personaggi, una storia e un lieto fine.

La trama non ve la racconto, vi dico solo che è ambientato alla fine degli anni sessanta in un'università del sud degli Stati Uniti, con le problematiche politiche e sociali tipiche di quegli anni, oltretutto in una parte del paese non certo progressista, a cui si innesta l'arrivo del professionismo nello sport.
Il tema principale è la corsa, in particolare il mezzofondo: il miglio e corse analoghe, ma avrebbe potuto altrettanto essere il footbal, o uno degli altri sport praticati nelle università americane.

A me ha fatto venire in mente, mutatis mutandis, "Momenti di gloria": quarantant'anni dopo e siamo in un college di secondaria importanza del sud degli Stati Uniti anziché a Cambridge in Inghilterra.
A scanso di equivoci: il film è uscito qualche anno dopo la pubblicazione del libro di Parker e la sceneggiatura non si appoggiava a un romanzo precedente ma è stata sviluppata originalmente per raccontare la vicenda vera di due velocisti inglesi. Quindi è una pura coincidenza e la similarità si limita al fatto di essere ambientato in un college e che si tratti di corsa. E entrambe le storie sono basate su vicende realmente accadute.

Spesso si cerca di tradurre in parole cosa significhi correre, cosa si pensi mentre si corre o cosa si prova mentre si corre. È impossibile ovviamente, come è impossibile trasferire in linguaggio scritto tante altre emozioni o pensieri, però devo ammettere che ci sono alcuni passi in cui sembra di capire cosa il protagonista sta provando nel momento dello sforzo, sia in allenamento che in gara, che sono due situazioni, pur di corsa entrambe, molto diverse.

Purtroppo il titolo italiano, non certo originale, fa pensare più a un manuale che a un romanzo, da cui si capisce il bisogno dell'editore di scrivercelo in evidenza. Il titolo originale, Once a runner, suona meglio però non è detto che una traduzione letterale fosse altrettanto efficace. Neanche la copertina è granché.

In breve: da leggere, di corsa!

La corsa
John L. Parker
Ultra Novel, Lit edizioni 
2013

(Titolo originale: 'Once a runner', edito negli Stati Uniti nel 1978!)

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mercoledì 28 maggio 2014

9.1 San Gersolè (Infarto in Fattucchia)

Asfalto e sterrato / saliscendi impegnativo / 13 km (giro) 

Lasciamo per un attimo da parte il titolo con la compiaciuta allitterazione bisillabica, lasciamolo lì come il fucile di Cechov, lo ritroveremo alla fine.

Maggio è il mese... degli iris! Sì... Del primo mare di stagione! Anche... Delle scampagnate! Ecco, sì: delle scampagnate, ma delle scampagnate correndo con gli amici sulle colline. Vabbè ma allora è un mese come gli altri, direte voi. No, la differenza è che, contrariamente al solito, non  abbiamo obbiettivi, né velocità da rispettare, né chilometraggio misurato, tutto è lasciato al piacere della giornata, ognuno ne approfitta condividere con gli altri un percorso che lo ha colpito o che gli è caro per un qualche motivo.

Il percorso ve lo racconterò come avrebbe dovuto essere, senza gli errori che non sono rari in queste scampagnate, anche perché ce li possiamo permettere, ci possiamo anche fermare tutte le volte che vogliamo a vedere i paesaggio e la performance non ne risentirà, quindi si può anche rischiare. E perdere, senza essere sbeffeggiato.

Partendo da Ponte a Ema, nei pressi della grande rotonda vicina all’ingresso dell’autostrada (noi per intendersi avevamo parcheggiato davanti alla Licosa, la cui scritta sul tetto è ben visibile). Tappa di trasferimento fino alle Cascine del Riccio passando dalle Cinque Vie.
Alle Cascine del Riccio si passa il ponticino e si prosegue oltre la Casa del Popolo (senza considerare la contrada che spunta proprio dopo il ponticino). Al bivio con la fontanella si tiene la sinistra (a destra sale e ci porterà a troppo a est): si deve passare sotto l’autostrada, prendendo subito dopo a destra salendo fino a spuntare sulla strada Nuova di Pozzolatico (noi invece prendendo a destra alla fontanella ci siamo spuntati molto più in basso e ci siamo dovuti sorbire il traffico del sabato mattina, incluso il camion della nettezza urbana...). Si continua a salire per poche centinaia di metri fino a che non si legge l’indicazione per S. Gersolè e si prende a sinistra. Un saliscendi riposante ci conduce al punto fisso della gita, sicuramente Emanuele lo conosceva ma non è un luogo abituale, io invece ci ero passato in bici e la volevo rivedere quella frazione, non è neanche un paese, c’è giusto una chiesa e qualche casa, da cui si gode un bel paesaggio su ambo i lati della collina immemori del rumore dell’autostrada poco distante.
Si comincia a scendere verso pian di Grassina ma al primo bivio si prende sulla sinistra verso San Giusto. La strada asfaltata scende un po’ dalla cresta della collina, sono convinto che una strada bianca vicinale, chiusa da un cancello ma con un passaggio per i pedoni, ci avrebbe permesso di mantenerci in quota ma non abbiamo avuto il coraggio di provare stavolta (e se troviamo un cane?...).
Via di Poggiosecco passa dalla chiesetta di San Giusto: sulla collina di fronte a noi, al di là dell’autostrada, distinguiamo la Torre del Gallo, Arcetri e, più a destra, il campanile di Santa Margherita a Montici.
Finiamo su via di Vacciano: scendendo si arriva direttamente alle auto, ma secondo le mie stime non sarebbero neppure tredici chilometri. Salendo si arriva in vetta alla collina cosiddetta di Fattucchia e da lì si prende a sinistra (e non a destra dove indica per Grassina) una strada sterrata che sale e scende su questa specie di altopiano. Dopo neanche un chilometro, in corrispondenza di due grandi cipressi si imbocca un sentiero che scende nettamente fino a via di Campigliano (in realtà l'ascesa e la discesa da Fattucchia l’ho già descritta partendo dal piazzale in "2.1 Fattucchia").
Oramai siamo arrivati: costeggiamo l’Ema (il fiume) verso sinistra, attraversiamo il centro di Ponte a Ema per poi tornare a dove abbiamo lasciato le auto.

Questa la scampagnata e il compagno della mattinata era Ema, detto anche “Mille scuse” dagli amici di Grassina.
Che devono essere assai maligni, i suoi amici.
In questo giro ha, nell’ordine: chiesto, fermandosi, indicazione, alle Cascine del Riccio a un ragazzo che conosceva (in quel caso a ragione perché avevamo chiaramente sbagliato strada), facilitato, fermandosi, il passaggio della auto che lo superavano in salita sulla via di Pozzolatico, attraversato, camminando, la strada per prendere il bivio per San Gersolè, domandato, fermandosi, a un un tizio che parlava al cellulare indicazioni per san giusto.
Quando palesemente non c’era alcuna scusa ha confessato con aria tra il complice e il sacrosanto: “devo recuperare”.

Arrivati al bivio, di fronte al dilemma se scendere alle macchine (sorriso sollevato) oppure affrontare l’ennesima salita (siamo già a tredici chilometri!...) ma come – ho tagliato corto – sei di queste parti, non puoi non conoscerla! e ho proseguito:
“Tanto c’è solo un’ultima salitina, anche se dura”.
“È questa?” fa speranzoso.
“No, questa non te l’avrei neppure chiamata salita, la salita vera comincia dopo la curva e il tornante tra gli alberi.”
In realtà erano due pettate da prima ridotta, però quando ha cominciato a dire “non ce la faccio”, eccomi di nuovo sergente Foley a gridargli “non ti fermare, non camminare, corri pianissimo ma corri”,
Una volta arrivato alla bene e meglio in vetta, non si è smentito: “devo recuperare!”,
“Senti non ti prenderà un infarto, quindi corri!”
Poi, dopo rapido calcolo del rischio: “Guarda se ti prende un infarto è colpa mia, va bene?” Questa gli è piaciuta – questa la puoi anche scrivere - e ha continuato. Poco dopo una discesa troppo impervia lo ha costretto a procedere con cautela. Camminando,...

Un altro problema di quando corriamo insieme è che non riusciamo a correre fianco a fianco. Siamo partiti e lui stava davanti, io di tanto in tanto provavo a dire non era necessario andare forte. I primi km erano in pianura, l’andatura era tranquilla anche se non di tutto riposo. Poi è cominciata la salita, ci siamo immessi (avendo sbagliato, era molto più giù di quello che ho descritto sopra e che avevamo programmato) sulla via Nuova di Pozzolatico: salita costante con discreta pendenza anche se non eccessiva. Peraltro poche settimane prima (“Saluti misti”) mi ero trovato nella situazione opposta: scendevo in bicicletta e ho salutato qualcuno che correva in salita. Ho rivisto lo stesso punto in cui ho salutato il runner e in quei pressi ho incrociato un ciclista che scendeva. L’ho salutato.
Tornando a noi due, abbiamo proseguito la salita e Ema stava ancora davanti a me, non che la cosa mi preoccupasse perché non sapendo cosa mi aspetti io in salita di solito vado “alla stessa fatica” ossia corro facendo la stessa fatica che farei in pianura andando però più veloce. Dopo due o tre volte che gli faccio notare che potrebbe andare più piano, e lui acconsente, “sì, sì, bisogna andare più piano”, gli ho detto: “Guarda che sei sempre due metri avanti a me, delle due l’una: o sei molto più in forma di me, o sei molto più fava.”
“La seconda che hai detto”. Un altro paio di curve senza che la salita accenni a alleggerirsi e vedo davanti a me un filo di fumo bianco...


Tornati infine alle auto mi ha detto “Grazie”. “E di che?” Di avergli intimato di non fermarsi, di essere stato un aguzzino? Elena poi a casa se glielo racconto mi rimproverarà e anche se obbietterò che non è che non ce la facesse davvero, che era solo nella sua testa, che in certi momenti hai bisogno di qualcuno che ti sproni, altrimenti ti fermi e poi a posteriori ti penti e ti dispiace, un dubbio mi assalirà: e se gli fosse preso un infarto in Fattucchia. Ma è solo un attimo. Però: che bella allitterazione. 


mercoledì 14 maggio 2014

Correre in stormo (racconto)

Ci è voluto un anno e mezzo quasi, sedici mesi per l’esattezza, durante i quali almeno una volta a settimana, ma spesso due volte, ho frequentato lo stesso spogliatoio e ho corso nello stesso parco e negli stessi paraggi. Solo buongiorno e arrivederci.
A dire la verità un primo passo avanti l’avevo già fatto durante il periodo di Natale: un giorno in cui nevischiava e c’era nebbia, ricordo che feci anche delle foto che mandai ai miei compagni che nello stesso momento stavano uscendo per correre a Firenze, – per fare  lo smargiasso: tanta neve tanto onore! Quel giorno lì, nello spogliatoio deserto, incontrai solo due dei più assidui, che casualmente arrivarono in tempi diversi, per cui mi trovai da solo a solo prima con uno e al ritorno con l’altro: attaccai discorso non ricordo esattamente su cosa, senz’altro sul tempo. Fatto sta che stabilii un minimo di contatto, anzi due contatti, tanto che la volta dopo, uno di questi mi guardò e, ammiccando agli altri che affollavano lo spogliatoio, mi disse: ma l’altra giorno non c’era così tanta gente!... Orazio invece scoprii che era originario di Scandicci: per uno lontano da Firenze è come un piemontese e un sardo che si incontrano al polo nord: compaesani! Con loro due potevo almeno scambiare due parole nello spogliatoio. È stato proprio Orazio, un paio di settimane fa, a farmi l’onore di invitarmi a correre insieme, era solo e stavamo chiacchierando mentre ci preparavamo: abbastanza ovvio, ma non scontato. Potrei contare quell’evento per sancire la mia entrata in società ma non mi sembra corretto: era sempre una persona o due, mentre per tutti gli altri continuavo a essere uno sconosciuto che correva accanto a loro ma in un universo parallelo. Quante volte li ho sentiti scherzare tra loro, parlare delle imprese del fine settimana, uno di loro ha fatto ben sette volte il trail del Monte Bianco, un altro fa i lunghi da trenta chilometri, senza forzare, a un’andatura a cui io riesco a correre un chilometro: non era facile inserirsi – ingenuo gradasso – in una conversazione.
Stavolta sono arrivato presto, mi sono cambiato e sono uscito mentre tutti arrivavano alla spicciolata. Poi mi sono messo fuori a aspettare che il Garmin agganciasse i satelliti e li ho visti uscire uno alla volta e aspettarsi fino a che il gruppo è partito. Erano cinque. Uno di loro, che non avevo mai visto prima, mi ha pure sbirciato, per capire chi fossi: ero lì ma non correvo con loro e neppure mi salutavano uscendo. Un pària.
Il Garmin non ne voleva sapere di prendere questi benedetti satelliti, intanto erano spariti. Ecco, posso partire. Trotterello verso l’uscita del parco e li vedo sfilare fuori dal cancello: allora sono ancora vicini! Non ho idea di quanto possano andare veloci e se io sarei stato in grado di correre con loro quand’anche mi avessero invitato, cosa che non hanno fatto. Comunque, anche solo come diversivo, decido di seguirli. Sono a un centinaiao di metri, girano a sinistra. Quando anche io arrivo all’angolo, sono sempre alla stessa distanza. A un incrocio taglio leggermente e guadagno una decina di metri. A un semaforo loro rallentano per il rosso, io passo con il verde pieno, sono a una trentina di metri. Controllo: non stiamo andando troppo veloci, potrei tenere la loro andatura. Ma devo raggiungerli senza spomparmi. Guadagno metro dopo metro e all’uscita di un parchetto sono in coda. L’ultimo del gruppo, quello che mi aveva sbirciato in partenza, sorpreso dal rumore di passi alle spalle si sposta leggermente di lato per dare spazio, io mi mantengo dietro. Quando la strada si allarga mi affianco ai due più “anziani” e dico, rivolto al vuoto davanti a me con tono sostenuto:
“Chiedo il permesso di aggregarmi a voi”.
“Permesso accordato”, mi risponde il più alto in grado, anche lui senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
Da quel momento sono parte della squadriglia, dello stormo, facendo attenzione a non stare davanti ma neppure sempre e solo dietro, che non pensino che non ce la faccia a tenere il passo, meglio in seconda fila e comunque sempre senza intralciare il cammino degli altri, che continuano a chiacchierare e scherzare tra loro. Io, sia pur silente, sto nel gruppo: ci muoviamo sincroni, ci adattiamo alla situazione modificando la formazione, in fila indiana, appena possibile in fila per due, in uno spiazzo ci apriamo a ventaglio: quattro davanti per chiacchierare meglio e due in retroguardia, nel viale che circonda il laghetto siamo compatti tre e tre, per poi tornare in fila da due quando rientriamo in strada, e rapidi in fila indiana se passa un’auto. Mi sento bene perché mi muovo a tempo con gli altri. Mi accorgo che, senza farlo vedere, ognuno di loro mi osserva di sottecchi, quando gli sto accanto o momentaneamente davanti o dietro. Ma nessuno mi detto niente.
All’ultimo chilometro il più alto in grado si rivolge a me. Che è il più alto in grado l’ho pensato da subito, per come è sicuro senza essere uno sbruffone, per come gli altri gli stanno intorno, in formazione: lui è sempre al centro ma spostato in avanti, guida senza però essere necessariamente il primo. Ha una maglietta di cotone dell’Ikea e un paio di pantaloncini non particolarmente tecnici, non ha bisogno di farsi notare con tenute professionali: natural born leader.
Si scusa per la goliardia del gruppo, a Firenze sarete più seri. È una frase di cortesia buttata lì, poteva chiedermi del tempo e sarebbe stato lo stesso. È l’autorizzazione al livello superiore, la parola, dopo l’apprendistato silenzioso del novizio.
Sono entrato nello stormo.