Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

mercoledì 14 maggio 2014

Correre in stormo (racconto)

Ci è voluto un anno e mezzo quasi, sedici mesi per l’esattezza, durante i quali almeno una volta a settimana, ma spesso due volte, ho frequentato lo stesso spogliatoio e ho corso nello stesso parco e negli stessi paraggi. Solo buongiorno e arrivederci.
A dire la verità un primo passo avanti l’avevo già fatto durante il periodo di Natale: un giorno in cui nevischiava e c’era nebbia, ricordo che feci anche delle foto che mandai ai miei compagni che nello stesso momento stavano uscendo per correre a Firenze, – per fare  lo smargiasso: tanta neve tanto onore! Quel giorno lì, nello spogliatoio deserto, incontrai solo due dei più assidui, che casualmente arrivarono in tempi diversi, per cui mi trovai da solo a solo prima con uno e al ritorno con l’altro: attaccai discorso non ricordo esattamente su cosa, senz’altro sul tempo. Fatto sta che stabilii un minimo di contatto, anzi due contatti, tanto che la volta dopo, uno di questi mi guardò e, ammiccando agli altri che affollavano lo spogliatoio, mi disse: ma l’altra giorno non c’era così tanta gente!... Orazio invece scoprii che era originario di Scandicci: per uno lontano da Firenze è come un piemontese e un sardo che si incontrano al polo nord: compaesani! Con loro due potevo almeno scambiare due parole nello spogliatoio. È stato proprio Orazio, un paio di settimane fa, a farmi l’onore di invitarmi a correre insieme, era solo e stavamo chiacchierando mentre ci preparavamo: abbastanza ovvio, ma non scontato. Potrei contare quell’evento per sancire la mia entrata in società ma non mi sembra corretto: era sempre una persona o due, mentre per tutti gli altri continuavo a essere uno sconosciuto che correva accanto a loro ma in un universo parallelo. Quante volte li ho sentiti scherzare tra loro, parlare delle imprese del fine settimana, uno di loro ha fatto ben sette volte il trail del Monte Bianco, un altro fa i lunghi da trenta chilometri, senza forzare, a un’andatura a cui io riesco a correre un chilometro: non era facile inserirsi – ingenuo gradasso – in una conversazione.
Stavolta sono arrivato presto, mi sono cambiato e sono uscito mentre tutti arrivavano alla spicciolata. Poi mi sono messo fuori a aspettare che il Garmin agganciasse i satelliti e li ho visti uscire uno alla volta e aspettarsi fino a che il gruppo è partito. Erano cinque. Uno di loro, che non avevo mai visto prima, mi ha pure sbirciato, per capire chi fossi: ero lì ma non correvo con loro e neppure mi salutavano uscendo. Un pària.
Il Garmin non ne voleva sapere di prendere questi benedetti satelliti, intanto erano spariti. Ecco, posso partire. Trotterello verso l’uscita del parco e li vedo sfilare fuori dal cancello: allora sono ancora vicini! Non ho idea di quanto possano andare veloci e se io sarei stato in grado di correre con loro quand’anche mi avessero invitato, cosa che non hanno fatto. Comunque, anche solo come diversivo, decido di seguirli. Sono a un centinaiao di metri, girano a sinistra. Quando anche io arrivo all’angolo, sono sempre alla stessa distanza. A un incrocio taglio leggermente e guadagno una decina di metri. A un semaforo loro rallentano per il rosso, io passo con il verde pieno, sono a una trentina di metri. Controllo: non stiamo andando troppo veloci, potrei tenere la loro andatura. Ma devo raggiungerli senza spomparmi. Guadagno metro dopo metro e all’uscita di un parchetto sono in coda. L’ultimo del gruppo, quello che mi aveva sbirciato in partenza, sorpreso dal rumore di passi alle spalle si sposta leggermente di lato per dare spazio, io mi mantengo dietro. Quando la strada si allarga mi affianco ai due più “anziani” e dico, rivolto al vuoto davanti a me con tono sostenuto:
“Chiedo il permesso di aggregarmi a voi”.
“Permesso accordato”, mi risponde il più alto in grado, anche lui senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
Da quel momento sono parte della squadriglia, dello stormo, facendo attenzione a non stare davanti ma neppure sempre e solo dietro, che non pensino che non ce la faccia a tenere il passo, meglio in seconda fila e comunque sempre senza intralciare il cammino degli altri, che continuano a chiacchierare e scherzare tra loro. Io, sia pur silente, sto nel gruppo: ci muoviamo sincroni, ci adattiamo alla situazione modificando la formazione, in fila indiana, appena possibile in fila per due, in uno spiazzo ci apriamo a ventaglio: quattro davanti per chiacchierare meglio e due in retroguardia, nel viale che circonda il laghetto siamo compatti tre e tre, per poi tornare in fila da due quando rientriamo in strada, e rapidi in fila indiana se passa un’auto. Mi sento bene perché mi muovo a tempo con gli altri. Mi accorgo che, senza farlo vedere, ognuno di loro mi osserva di sottecchi, quando gli sto accanto o momentaneamente davanti o dietro. Ma nessuno mi detto niente.
All’ultimo chilometro il più alto in grado si rivolge a me. Che è il più alto in grado l’ho pensato da subito, per come è sicuro senza essere uno sbruffone, per come gli altri gli stanno intorno, in formazione: lui è sempre al centro ma spostato in avanti, guida senza però essere necessariamente il primo. Ha una maglietta di cotone dell’Ikea e un paio di pantaloncini non particolarmente tecnici, non ha bisogno di farsi notare con tenute professionali: natural born leader.
Si scusa per la goliardia del gruppo, a Firenze sarete più seri. È una frase di cortesia buttata lì, poteva chiedermi del tempo e sarebbe stato lo stesso. È l’autorizzazione al livello superiore, la parola, dopo l’apprendistato silenzioso del novizio.
Sono entrato nello stormo.

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