Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

domenica 24 novembre 2013

L’altra maratona (ce n’è di gente strana)

L’avevo detto che avrei partecipato per il piacere dell’evento, per condividere l’atmosfera della partenza con gli amici e i colleghi, e per gustarmi la festa nelle strade di Firenze.
Ringrazio il Signore, Allah, gli dei del Walhalla o la Forza per averci concesso una giornata splendida da un punto di vista atmosferico: cielo sereno e temperatura mite con poco vento. Questo ha contribuito fortemente a conferire un’atmosfera ridanciana e festosa alla comitiva, eravamo un gruppo nutrito per la foto di rito prima dell’ingresso alle gabbie, e a tutti gli undicimila in generale: aspettare sotto la pioggia battente o sferzati dal vento insidioso e fustigatore di fine novembre non sarebbe stato altrettanto piacevole se pur più epico.
Detto ciò non avevo grandi aspettative.
“Metti le mani avanti”, mi ha detto facendomi gli auguri venerdì pomeriggio.
“No è realismo” ho ribattuto io. Ma lui avrà avuto la conferma che mettevo le mani avanti.
Se avessi proseguito quella sorta di preparazione di riparazione che stavo portando avanti con cocciutaggine oggi avrei dovuto fare trenta chilometri: sono partito più piano, avevo la tartaruga invece della lepre, (Simone, che ringrazio, è stato ferreo nel tenere la media che avevamo concordato e frenandomi con tenacia) e ne ho fatti trentatré ma poi mi sono fermato dopo che gli ultimi chilometri stavo procedendo in “modalità critica” o “con i remi in barca”, incapace di qualunque azione guidata e poi avevo pure cominciato a zoppicare e il primo insegnamento, che è soprattutto un impulso intrinseco di salvaguardia, è quello di arrivare integro all’arrivo, mi ha fatto desistere.
Luigi aveva detto che il richiamo dello scooter sarebbe stato troppo forte passando nei paraggi della partenza. E continuerà sotto sotto a pensarlo.
Non voglio qui piagnucolare per il fatto che non ho terminato la gara ma riportare quei piccoli momenti che mi hanno fatto godere la festa a partire da prima della partenza fino a che ho resistito.

Innanzitutto sono orgoglioso che uno dei partecipanti più ammirati nell’area della partenza fosse un collega e facesse parte del nostro gruppo: se avete visto un tizio con i capelli lunghi e spettinati su un pigiama di flanella a righe celesti e blu pensando che si fosse appena alzato da letto con indolenza oppure appena evaso dalla Cayenna, quello era Giancarlo. Alcuni fortunati si sono beccati in testa prima i pantaloni poi la giacca del pigiama prima dello sparo. Un onore a suo dire. Confermo pertanto che, come hanno protestato due delusi runner foresti, non ha corso in pigiama.

Poi visto che al trentacinquesimo chilometro non sarei stato con loro in ogni caso ho sparato la barzelletta idiota (dell'importanza della barzelletta idiota sotto sforzo ne ho parlato varie volte) prima della partenza:
cosa dice la supposta al razzo?
“Beato te che vai in cielo!...”
L’avevo detto io che era idiota e pertanto ben si adattava al momento topico della corsa. Anche se a ben pensarci pareva riferirsi a un colloquio prima di una partenza.

All’Indiano ero ancora in forma e quando qualcuno ha chiesto a qualcun altro perché si chiamasse così, mi sono intromesso e ho raccontato la storia del marajà morto e del fatto che fosse stato sepolto al congiungimento di due fiumi, Mugnone e Arno, come ricordava il monumento. Il gruppo di veneti che mi circondava ha ringraziato soddisfatto per la parentesi culturale.

Non mancava il runner abbigliato da capo tribù pellerossa agghindato con il tipico diadema di penne sulla testa e un gonnellino che voleva essere indianesco. Sul lungarno Santa Rosa l’abbiamo sorpassato che si stava fermando e non ho resistito: “Guarda Toro Seduto!”

In via Mannelli mi ha superato alla mia sinistra un francese, lo sentivo parlare già mentre si avvicinava, poi l’ho osservato mentre mi superava, non aveva nessun accanto e neppure un auricolare all’orecchio e quindi non stava parlando al telefono. Ovviamente non mi sono trattenuto:
“C’est grave bavarder tout seul!", gli ho detto.
Al che si è girato e mi ha guardato strano: in quel momento un tizio ci ha superato sulla destra ricongiungendosi a lui. Io e Simone siamo scoppiati a ridere mentre spiegavo loro l’equivoco ma non mi sono sembrati apprezzare. Peraltro lui che fosse francese lo si poteva intuire anche dall’abbigliamento, fuseaux neri e maglia grigia: se girate per Parigi sembra che gli unici colori ipotizzabili addosso a un uomo di qualunque età siano il nero e il grigio. Ma anche il tizio amico suo con cui parlava era ben francese per il verso opposto: mutandoni bianchi lunghi e sventolanti con piccoli orsetti colorati (non ho registrato il resto dell’abbigliamento perché mi sono fissato sugli orsetti). Drôle d’un français!...

Non lo conosco, è amico di un collega, poi abbiamo scoperto che Ema lo conosceva. Comunque per ovvie ragioni di riservatezza meglio che non sappia neppure il suo nome. Ci ha raggiunto la prima volta alle Cascine dopo che aveva avuto un diverbio con il sorvegliante dei bagni pubblici che reclamava il pagamento di un obolo per farlo entrare e quindi si era visto costretto a “fare le sue cose” (lui non ha usato perifrasi nel raccontarcelo) dietro un cespuglio. Dopo un po’ ci ha salutato e se ne andato avanti. Qualche chilometro dopo mentre stavamo ammirando l’astronave galattica che è atterrata qualche anno fa accanto alla Leopolda, lo intravedo sgattaiolare furtivo attraverso un cancello socchiuso del cantiere. Ce la ridiamo e proseguiamo. Dopo Ponte al Pino ci risorpassa in compagnia di un amico suo, ci saluta confidandoci che aveva fatto anche una terza sosta, oltre a quella che avevamo osservato a sua insaputa. Purtroppo poi mi sono fermato quindi non ho avuto altre occasioni di rivederlo passare: perché rientrando in un consesso urbano abitato di domenica mattina sarei stato veramente curioso di sapere dove si fosse fermato. Tenuto conto che, a quanto mi è dato sapere, aveva fatto tre soste in ventisette chilometri, stimerei che gliene sarebbero state necessarie un altro paio. L’argomento non è avvincente però non mi ero mai posto il problema e soprattutto non pensavo che, avendo un problema del genere, uno si mettesse a correre una maratona.

Intorno allo stadio ho fatto qualche chilometro spinto solo dal desiderio di vedere da vicino il Mandarino, come l’ha definito Simone: giacca e pantaloni di tessuto giallo lucido, un copricapo tondeggiante rosso da cui spuntava una lunga treccia nera. Quando l’ho superato, di sottecchi l’ho guardato in volto: non era affatto cinese ma anzi aveva un aria vagamente nordica.


La morale? Correre una maratona è un modo faticoso per divertirsi la domenica mattina ma quanto a stranezze può valer la pena.

Nessun commento:

Posta un commento