Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

lunedì 6 agosto 2012

L’insospettabile agilità dello yak (certe volte forse è meglio non correre)


Vi chiederete cosa c’entri con la corsa e con Firenze. Con Firenze assolutamente niente se non per negazione: c’entra in quanto che non sono attualmente a Firenze. Con la corsa? In pieno periodo olimpico non sono mancati di recente sui quotidiani interessanti servizi sul fatto che il ghepardo batterebbe Bolt o che un canguro salterebbe molto più in alto di un uomo, oppure che lo scarabeo stercorario sollevando più di mille volte il proprio peso sarebbe imbattibile (nella propria categoria, immagino)... Pertanto, prendetela come un’ulteriore considerazione sull’abilità atletica degli animali e sulla pochezza del runner che deve ringraziare di aver portato la scarpe (e tutto il resto) in salvo a casa.
Ma andiamo con ordine. Sto trascorrendo una settimana a Solda (versante altoatesino dello Stelvio, dominato dall’Ortles) nota per la permanenza di Frau Merkel (non ci siamo incrociati per poco, ma lei non lo saprà mai) e per la residenza estiva in zona di Rainhold Messner che qui ha fondato un museo dei ghiacciai e alleva degli yak portati dal Tibet. Fin qui tutto bene.
Gli yak nel periodo invernale risiedono in un maso vicino al museo mentre d’estate pascolano ad alta quota. Fin qui tutto bene.
Un manifestino avvistato nel nostro hotel avvisava del fatto che poteva accadere al turista di imbattersi nella mandria di yak di Messner al pascolo e suggeriva di non avvicinarsi più di dieci metri per sicurezza. Fin qui tutto bene anche se nasce il sospetto che questi bufali preistorici non siano così innocui.
Arriviamo al dunque.
Oggi a metà di una bella e probante escursione, mentre cominciamo la discesa verso valle, su un prato a circa duemilacinquecento metri di altezza vediamo delle strane mucche pelose e gibbute, provviste pure di lunghe corna ricurve. Gli yak!, esultiamo io e Elena guardandoci sorridenti. A distanza di sicurezza, ben più dei dieci metri raccomandati, faccio delle foto grazie a un ottimo zoom ottico. Quello che pareva il capo branco, un bestione bruno assai imponente, ci degna di uno sguardo prolungato. Al secondo sguardo, riprendiamo il nostro cammino, soddisfatti dell’incontro e stupiti di come fossero fatti questi yak, peraltro di dimensioni varie, probabilmente in base al sesso e all’età e di colori diversi: bianco, marrone e nero. Fin qui tutto bene.
Qualche chilometro dopo mi fermo a fare qualche altra foto in lontananza alla mandria che si staglia sul crinale del monte con dietro la luce bianca che filtra dalle scure nubi che si addensano sulle montagne. Fin qui tutto bene.
Riprendiamo bel belli la nostra discesa. Pochi minuti dopo, in un tratto verdeggiante di saliscendi, con la coda dell’occhio vedo a poche centinaia di metri alle spalle di Elena qualche yak in avvicinamento, apparentemente sul nostro sentiero.
Per non allarmare eccessivamente Elena, - perché poi una mandria di yak deve seguire il sentiero?, - le faccio: “Cammina, su”.
“Perché?” chiede lei.
“Cammina, cammina, vieni.”
“Ma perché?”, cominciando a spaventarsi,
“Tu cammina, poi te lo dico!”
Quando vedo spuntare a una cinquantina di metri l’intera mandria, non posso più sperare che deviino spontaneamente e ammetto la situazione di crisi: “Abbiamo gli  yak alle nostre spalle, vieni!”, la prendo per mano e cerco rifugio su dei massi piuttosto alti e scoscesi. 
Quando siamo tutti e due su, a pochi metri di distanza, ovviamente sul sentiero, ci passano davanti venti yak al galoppo che spariscono immediatamente (per fortuna riesco a immortalare gli ultimi del gruppo). 
Siamo sbalorditi dall’agilità e dalla velocità, paragonabili a quelle di capre di montagna piuttosto che a delle mucche, con cui si muovevano. Inutile dire che quando è apparso un vecchio yak ritardatario siamo schizzati di nuovo sulle rocce.
Da allora siamo andati avanti guardinghi. Quando la pendenza ce lo ha permesso, li abbiamo rivisti procedere lentamente in fila indiana, sempre lungo il sentiero, sull’altopiano qualche centinaio di metri sotto di noi.
La morale?
Che gli yak sono più agili del previsto? Che dieci metri non costituiscono necessariamente una distanza di sicurezza, soprattutto se lo yak ti sta venendo addosso già in corsa? Che la corsa serve a poco in certi casi, anzi correre può essere interpretato male?
Forse non c’è morale però vi do un consiglio: occhio agli  yak!

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