Vi chiederete
cosa c’entri con la corsa e con Firenze. Con Firenze assolutamente niente se
non per negazione: c’entra in quanto che non sono attualmente a Firenze. Con la
corsa? In pieno periodo olimpico non sono mancati di recente sui quotidiani interessanti
servizi sul fatto che il ghepardo batterebbe Bolt o che un canguro salterebbe
molto più in alto di un uomo, oppure che lo scarabeo stercorario sollevando più
di mille volte il proprio peso sarebbe imbattibile (nella propria categoria,
immagino)... Pertanto, prendetela come un’ulteriore considerazione sull’abilità
atletica degli animali e sulla pochezza del runner che deve ringraziare di aver
portato la scarpe (e tutto il resto) in salvo a casa.
Ma andiamo con
ordine. Sto trascorrendo una settimana a Solda (versante altoatesino dello
Stelvio, dominato dall’Ortles) nota per la permanenza di Frau Merkel (non ci
siamo incrociati per poco, ma lei non lo saprà mai) e per la residenza estiva
in zona di Rainhold Messner che qui ha fondato un museo dei ghiacciai e alleva
degli yak portati dal Tibet. Fin qui tutto bene.
Gli yak nel
periodo invernale risiedono in un maso vicino al museo mentre d’estate pascolano
ad alta quota. Fin qui tutto bene.
Un manifestino
avvistato nel nostro hotel avvisava del fatto che poteva accadere al turista di
imbattersi nella mandria di yak di Messner al pascolo e suggeriva di non
avvicinarsi più di dieci metri per sicurezza. Fin qui tutto bene anche se nasce
il sospetto che questi bufali preistorici non siano così innocui.
Arriviamo al
dunque.
Oggi a metà di
una bella e probante escursione, mentre cominciamo la discesa verso valle, su
un prato a circa duemilacinquecento metri di altezza vediamo delle strane
mucche pelose e gibbute, provviste pure di lunghe corna ricurve. Gli yak!,
esultiamo io e Elena guardandoci sorridenti. A distanza di sicurezza, ben più
dei dieci metri raccomandati, faccio delle foto grazie a un ottimo zoom ottico.
Quello che pareva il capo branco, un bestione bruno assai imponente, ci degna
di uno sguardo prolungato. Al secondo sguardo, riprendiamo il nostro cammino,
soddisfatti dell’incontro e stupiti di come fossero fatti questi yak, peraltro di
dimensioni varie, probabilmente in base al sesso e all’età e di colori diversi:
bianco, marrone e nero. Fin qui tutto bene.
Qualche
chilometro dopo mi fermo a fare qualche altra foto in lontananza alla mandria
che si staglia sul crinale del monte con dietro la luce bianca che filtra dalle scure nubi che si addensano sulle montagne. Fin qui tutto bene.
Riprendiamo bel
belli la nostra discesa. Pochi minuti dopo, in un tratto verdeggiante di
saliscendi, con la coda dell’occhio vedo a poche centinaia di metri alle spalle
di Elena qualche yak in avvicinamento, apparentemente sul nostro sentiero.
Per non allarmare
eccessivamente Elena, - perché poi una mandria di yak deve seguire il
sentiero?, - le faccio: “Cammina, su”.
“Perché?”
chiede lei.
“Cammina,
cammina, vieni.”
“Ma perché?”,
cominciando a spaventarsi,
“Tu cammina,
poi te lo dico!”
Quando vedo spuntare
a una cinquantina di metri l’intera mandria, non posso più sperare che deviino
spontaneamente e ammetto la situazione di crisi: “Abbiamo gli yak alle nostre spalle, vieni!”, la prendo
per mano e cerco rifugio su dei massi piuttosto alti e scoscesi.
Quando siamo
tutti e due su, a pochi metri di distanza, ovviamente sul sentiero, ci passano
davanti venti yak al galoppo che spariscono immediatamente (per fortuna riesco a immortalare gli ultimi del gruppo).
Siamo sbalorditi
dall’agilità e dalla velocità, paragonabili a quelle di capre di montagna
piuttosto che a delle mucche, con cui si muovevano. Inutile dire che quando è
apparso un vecchio yak ritardatario siamo schizzati di nuovo sulle rocce.
Da allora siamo
andati avanti guardinghi. Quando la pendenza ce lo ha permesso, li abbiamo
rivisti procedere lentamente in fila indiana, sempre lungo il sentiero, sull’altopiano
qualche centinaio di metri sotto di noi.
La morale?
Che gli yak
sono più agili del previsto? Che dieci metri non costituiscono necessariamente una distanza di sicurezza,
soprattutto se lo yak ti sta venendo addosso già in corsa? Che la corsa serve a
poco in certi casi, anzi correre può essere interpretato male?
Forse non c’è
morale però vi do un consiglio: occhio agli
yak!
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