Un collega con il quale ho pranzato qualche giorno fa, dopo che ci eravamo
conosciuti casualmente nello spogliatoio dopo la corsa, parlando dei miei
racconti, si stupiva per la quantità dei dettagli che riesco a riportare nei
miei resoconti di corsa, e citava per esempio qualche particolare non
propriamente ortodosso che io ho confessato di aver osservato durante la
maratona (durante i primi chilometri, La maratona di Firenze - 6), e mi chiedeva come facessi a ricordarli con tale precisione.
Usavo un registratore? Li scrivevo subito dopo?
Effettivamente è una cosa che stupisce anche me (davvero,
non è falsa modestia) tenendo conto che, restando all’esempio molto calzante
della maratona di Firenze del 2010, mi sono messo a scrivere vari mesi dopo
l’evento. Comunque mi rendo conto che di solito per scrivere di qualcosa,
soprattutto se impegnativo, ho bisogno di averci messo del tempo in mezzo, sia
per trovare il piacere di ripensarci, sia per avere quella distanza necessaria
per stupirmi come un osservatore esterno.
Certo per rivivere quelle quattro ore e quei quarantadue
chilomentri mi sono anche aiutato: ripercorrendo il percorso sulla cartina,
rivedendo le foto e soprattutto spezzando in piccoli tratti, non per niente ho
diviso il racconto in capitoli da cinque chilometri. Dopodiché mi sono messo
con calma e ho rivissuto e rivisto quello che mi era successo dall’inizio,
chilometro per chilometro, ho rivisualizzato, in senso letterale, quello avevo
vissuto forzandomi a riviverlo, e
“sbobinandolo” subito dopo, pezzo per pezzo, senza stare a guardare troppo la
forma, perché l’importante era riscavare, raccogliere e depositare in salvo da
qualche parte ogni minimo ricordo. Poi, una volta riesumato un ricordo, lo si
può descrivere meglio, si può raffinare la scrittura, ma lo sforzo di ricordare
è stato fatto e non ci si perderà più energia. Sì, perché questa attività di
rivisitazione è faticosa, certo meno faticosa dell’atto stesso di correre quei
quarantadue chilometri, ma comunque non è un dono che piove dal cielo: mi rendo
conto che è un approccio che ho sempre avuto nel raccontare, e che, una volta
messo in moto questo ri-vivere, poi devo solo tener dietro e “sbobinare”
spippolando come un forsennato sulla tastiera. Certo riconosco che anche questo
ri-vivere, come anche la scrittura medesima, è aiutato dall’esercizio e
dall’abitudine.
A fine pranzo, mi sono reso conto che, intrigato dalla
questione, mi ero buttato in queste elucubrazioni con una certa passione. Spero
di non aver annoiato troppo il collega, la prossima volta ci penserà due volte
prima di farmi una domanda.
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