L’esperimento consisteva nel prendere quattro individui tra
i trenta e i cinquant’anni che avevano corso una maratona e fargliene correre
un’altra a distanza di quattro settimane.
La tesi era che, soprattutto in caso di ritiro o di gara non
soddisfacente, si potesse recuperare dalla fatica e allo stesso tempo non dover
gettare la preparazione fatta e ricominciare tutto da capo. Il trucco stava nel
considerare la maratona appena corsa niente altro che l’ultimo lunghissimo della
preparazione (programmato a quattro settimane dalla gara) e, fatta salva una
settimana di recupero a ritmo ridotto, proseguire con lo “scarico” (una ventina
e quindici chilometri nelle ultime due domeniche).
In quattro abbiamo condiviso l’avventura di Venezia il
28 ottobre e, di questi quattro, tre hanno preso parte alla Maratona di Firenze
il 25 novembre (il quarto non ha potuto per motivi non inerenti alla corsa).
Di
questi tre, ben due hanno addirittura fatto registrare un tempo migliore di
quello della gara precedente, affinando per di più il proprio personale.
Lungi dal trarre superficiali e frettolose conclusioni (che
per esempio il 66% del campione alla seconda maratona in un mese migliora il
proprio tempo) che sarebbero inconsistenti dato che si parla di un campione
limitato (tre individui) e ogni maratona ha le sue difficoltà precipue (a
Venezia pioggia, vento forte e acqua alta, a Firenze 15° senza vento ed è pure spuntato un pallido sole).
Solo un paio di considerazioni: correre una maratona non è
una passeggiata e cela innumerevoli variabili (preparazione, alimentazione,
atteggiamento mentale, condizioni atmosferiche, ma anche un problema personale,
una settimana in cui si è riposato poco perché il bambino piangeva tutte le
notti, una contrattura mentre si metteva lo scooter sul cavalletto) che possono,
ognuna nel suo piccolo, turbare un equilibrio assai delicato. Correrne una seconda a
breve distanza di tempo è fattibile anche se non è consigliabile alla leggera e
nasconde ulteriori incognite (che succederà al mio corpo non solo al
trentacinquesimo chilometro ma anche al trentesimo se non al venticinquesimo).
Per quanto mi riguarda devo ammettere di far parte del 33%
del campione a non aver migliorato il proprio tempo, anzi. Le ragioni? La prima
metà ingenuamente troppo arzilla? o fatica precedente non riassorbita del tutto? Di fatto
al venticinquesimo chilometro ho avvertito un distacco tra il controllo e il
motore. Di fronte alla prospettiva di soffrire per altri ben diciassette
chilometri con la prospettiva chiarissima di fare un tempo peggiore delle
aspettative, il pensiero di dover spiegare a tutti quelli che me lo avrebbero
chiesto perché mi fossi ritirato e il ricordo di Roma mi hanno tolto ogni dubbio: ho tirato di
lungo e stretto i denti fino al trentesimo, e di lì al trentacinquesimo, e di
lì al quarantesimo, per tacer degli ultimi due chilometri che ho avuto il
coraggio di chiamarli un “bonus track” ma imboccare via Ghibellina dover
aver fatto quaranta chilometri mi ha fatto ricredere sulla metafora.
In conclusione: anche se il tempo ha lasciato a desiderare, sono soddisfatto di me, di come ho reagito e di come ho
resistito.
Morale: sono arrivato, sano (rimandando tutti i crampi al
dopo-gara), quindi ho raggiunto l’obbiettivo principale. Poi ho contribuito a
dimostrare positivamente la tesi dell’esperimento ossia che due maratone a
distanza di un mese si possono fare.
Però, c'è sempre un però, si possono anche non fare: al trentanovesimo
chilometro quando da via Calzaiuoli mi si è spalancata la facciata di Santa Maria del
Fiore ho risorpassato una ragazza del Gruppo Sportivo Ausonia che mi aveva
passato allo stadio. Ci avevo scambiato due parole lungo il Brenta un mese fa e l'avevo vista di nuovo sul Ponte della Libertà quando ormai Venezia era all’orizzonte.
Stavolta era stesa sui lastroni di piazza del Duomo in preda a una crisi di
crampi. Potevo esserci io lì disteso e lei essere passata, e adesso vi starei raccontando un'altra storia. Capita la morale?
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