Allora teorizzavo, poi ho messo in pratica. In modo ferreo, ho corso quattro gare distinte:
- Da 0 a 10km trattenendomi il più possibile, anche se
alla fine Luigi e Giovanni hanno abbozzato di dirmelo: non riuscivo a non
stare un paio di secondi sotto quello che avevo dichiarato: pazienza, in
ogni caso era un passo ragionevole;
- Da 10 a 20km: finito di festeggiare mentalmente il
raggiungimento del 10° chilometro ho inquadrato il prossimo obbiettivo:
20km, non uno di più, non pensavo neppure a quello che c’era dopo, se non
che c’era qualcosa ma ci avrei pensato dopo, appunto. E ho cominciato a
far mente locale su quando mangiare, rispetto a quanto stabilito (ne
parlerò prossimamente).
- Da 20 a 30km: questa è la gara da non sottovalutare,
di impegno crescente: mantenere la concentrazione, controllare che tutto
vada bene, attaccarsi a qualunque bersaglio nei paraggi pur di mantenere
il passo, anche se è ammissibile un piccolo calo.
- Da 30 a 40km: qui siamo appunto nella terra di
mezzo, bisogna procedere guardinghi, consapevoli di stare facendo
l’impresa: sono un eroe, ce la sto facendo! Forse si può ulteriormente
suddividere in due: 30-35km e 36-40km perché di solito il 35° km può
essere una sorta di traguardo. Il ristoro può prestare facilmente a essere
considerato un traguardo! Subito dopo bisogna concentrarci nuovamente e
controllare che tutto sia in ordine: postura, movimento delle braccia,
respirazione, se le suole stanno strisciando devo fare attenzione al
movimento delle gambe e delle anche (è incredibile: quando sono stanco non
muovo le anche e i piedi strisciano...).
Gli ultimi due chilometri non si contano, sono una specie di bonus track: in pratica “vedi” l’arrivo,
anzi lo “senti” perché il pubblico, i volontari, i casuali compagni di ventura
(e tu stesso ti scoprirai a farlo) te lo ripetono: manca solo due chilometri,
manca solo un chilometro, è fatta!...
Aneddoto: a
Venezia negli ultimi 2km stavo strisciando come una biscia d’acqua (complice
l’acqua alta) e superavo, venendone superato poco dopo, un tizio, un francese ho pensato: sui quaranta, capelli mossi brizzolati legati a coda
con l’elastico, interamente vestito di nero (e pure più del necessario: fuseaux neri sotto i pantaloncini neri).
Comunque
all’ennesimo sorpasso e risorpasso, poco prima della Dogana Vecchia, affiancatolo
gli ho detto con sollievo: “Forza! Ce l’abbiamo fatta!”. Lui mi guarda con lo
sguardo imperturbato di chi pensa, quasi indispettito, “ma che cazzo vuole
questo stronzo?” (butto lì in attesa di una consulenza specifica: putain, il veut quoi cet salaud?).
Ho ripreso a
guardare davanti a me come se niente fosse. E non ho più fatto caso se lo
sorpassavo o mi risorpassava (ma più che l’offesa quella era la stanchezza).
Dalla foto
scattatami su uno degli ultimi ponti ho verificato che era proprio francese.
Però almeno un sorriso di solidarietà, se non di comprensione visto che non
comprendeva!, poteva pure farlo...
Domenica
prossima a Firenze dovrò fare ancora più attenzione: il fatto che sia riuscito
a fare una certa cosa non significa che ci riesca automaticamente di nuovo,
bisogna sempre faticare per ottenere quello che si vuole, niente è gratis e
l’esperienza, si sa, non basta (dovrebbe bastarmi l’insegnamento di Roma...).
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