“Stai tranquillo, puoi
correre ancora vent’anni.”
Uno
stridio. Un suono fesso di ceramica che si è incrinata. Un sottile schianto poggiando un bicchiere di cristallo.
Non
ho sorriso rassicurato al volto pacifico e incoraggiante di Stefano. Non ho
annuito convinto. Non ho neppure fatto cenno di aver ascoltato, ho lasciato che
proseguisse, forse l’ho guardato interrogativo oppure più probabilmente ho
puntato il poster del gruppo del Putia alle sue spalle. Ho mantenuto un’aria dubbiosa,
comunque riflessiva, e lui ha proseguito, rassicurante, pacifico.
“Rispetto
alla scorsa volta la caviglia sta molto meglio.” Ha proseguito.
Ha
fatto anche dei confronti: “Se l'altra volta, da uno a dieci, era bloccata a livello
sette-otto, oggi solo uno-due.”
“Sì,
- ho obbiettato timoroso, - ma dalla scorsa volta è passata una sola
settimana... e già ha cominciato a
ribloccarsi, c’è qualcosa che non va...”
La
discussione è andata avanti, lui a rassicurarmi e io parzialmente scontento,
preoccupato dalla salute della mia caviglia sinistra. Però forse ero anche infastidito da quel suono fesso, da quell’incrinatura che mi aveva sorpreso.
Non mi ero dato una spiegazione del perché mi fossi infastidito, dato che ancora
non mi ero completamente reso conto da cosa fossi infastidito. Ho
cominciato a realizzarlo il giorno dopo, anzi due giorni dopo: “puoi correre
ancora vent’anni”... perché solo vent’anni?
Perché non trenta o cinquanta?
E' stato allora che mi sono messo a fare i conti: quaranta più venti fa sessanta. Potrò
correre solo fino a sessant’anni? E poi? Solo passeggiate? Ma io non ho quarant’anni,
ne ho quarantasei! Il velo si è improvvisamente alzato e ho visto, scritto su foglio bianco a quadretti
grandi,
46
+ 20 = 66
Come dire: settanta.
Ci
credo che ha cercato di tranquillizzarmi dandomi ancora vent’anni di corsa,
mica poteva darmene trenta, non ci avrebbe creduto neppure lui: “a settantasei
anni starai ancora a correre come un bischero!”, gli sarebbe venuto da ridere.
Lasciamo
stare le eccezioni, lo so anche io, li vedo a tutte le gare a cui partecipo,
pertanto devono farne ben di più: hanno capelli bianchi e la pelle delle
braccia un po’ avvizzita, ma corrono, eccome se corrono, il più delle volte li
vedo solo alla partenza. Però so anche che quelli, quando erano giovani, correvano
a livello agonistico. Ora possono pavoneggiarsi, - ‘giustamente, alla loro età’
stavo pensando, allora insisto! – con i quarantenni. Io tra
vent’anni prenderò le pappe pure dai quarantenni che si domanderanno che
ci venga a fare questo vecchietto.
Ma
tanto io le garette non le farò più, sarò a fare le passeggiate, io, a
settant’anni.
Ma allora
che cazzo corro a fare? Allenamenti, sudore, energie spese, per cosa? Un lento
e annunciato declino. Tanto vale che smetta subito.
In
questi giorni sono al mare, ma prossimamente devo mettere a punto il programma
di preparazione per Venezia, il primo lungo verrebbe bene a metà agosto dopo la
vacanza in montagna, così non mi sembrerà troppo presto. L’importante è la
strategia del “ventino”: almeno una ventina di chilometri nel fine settimana,
così quando inizio la preparazione potrò cominciare già dai venticinque. Stamani
ne volevo appunto fare venti, ma poi alla fine ne ho fatti solo diciotto un po’
per il caldo (già alle sei e mezzo non si muoveva foglia), un po’ per i 170 m
di dislivello che mi restano alla fine: a metà salita ho deciso che anche
diciotto chilometri erano un buon allenamento.
Elena
mi chiama, dobbiamo andare a cena. C’era qualcosa di cui volevo scrivere... si
vede che sto invecchiando: mi scordo le cose e mi distraggo con facilità. Non
doveva essere una cosa importante, sennò me ne ricorderei.
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