“Che differenza
c’è?” chiede il mio infaticabile sodale.
“L’alba è un chiarore, è bianca, mentre l’aurora, che viene subito dopo, è arancione.”
Proseguo perso
dietro una mia madeleine: “O meglio rosa,
come diceva Omero - butto lì con posata nonchalance - ‘rodudàctulos Éos’...”
Siamo a metà
della seconda ripetuta da 5km a ritmo da mezzamaratona con un recupero di 1km a
ritmo maratona (per impegno morale e programmatico non parlo di tempi e
velocità, ma qui serve per comprendere il tipo di sforzo – ripetute lunghe
ma non velocissime - e così ognuno è libero di figurarsi le velocità che gli si
confanno e può meglio immedesimarsi), riesco ancora a fare lo sbruffone ma non a lungo: mi zittisco per recuperare.
“Ancora due chilometri”
proclamo poco dopo, incoraggiando anche me stesso.
“Potresti
raccontarmi qualche barzelletta, come quella di Persèo” mi provoca Luigi.
Rispondo
riciclando un paio di stupide freddure da terza elementare (un pietoso esempio:
“Pierino hai mangiato la molla?” “Nòin!... Nòin!...”) che mi aveva raccontato
Giovanni qualche lunghissimo fa.
“Certo, quella
di Persèo era meglio, più interpretata” commenta Luigi ridacchiando.
“Eh sì, - ammetto
io, - però quella te l’ho raccontata in un lunghissimo, mica durante una
ripetuta!”
La barzelletta
idiota di Persèo l’avevo raccontata pure a Giovanni (Luigi non c’era quella
volta, così l’ho potuta usare ben due volte raccontandola anche a lui qualche
domenica dopo quando invece non c’era Giovanni) e appunto lui aveva ribattuto
con quelle freddure che ho riciclato stamani (a eccezione di questa di Persèo, non mi sono mai ricordato le
barzellette neppure da bambino, figurarsi a distanza di decine di anni...).
Il buffo di
questa barzelletta, che è veramente stupida, è che io di tanto in
tanto, magari mentre corro da solo e ho esaurito
tutti gli altri pensieri positivi, ci ripenso e me la ri-racconto. Sì, avete capito bene: me la ri-racconto.
Immaginate la situazione: sono stanco, ho già fatto una
ventina di chilometri, sono sperduto in qualche via di campagna con ancora più
di dieci chilometri da percorrere prima di poter pensare di essere vicino a
casa. Ecco che io già sorrido all’idea di quella vecchissima barzelletta e me
la racconto mentalmente.
La scena si
svolge in un campo di battaglia, dopo un sanguinoso scontro tra greci e
persiani (a pensarci bene potrebbero anche essere Ateniesi e Spartani,
l’importante è che almeno una delle due fazioni sia greca). La piana è un
intrico di cavalli, scudi, cadaveri e lance. Un anziano padre si aggira
cercando disperatamente il figlio che non ha fatto ritorno. E grida:
“Persèo!... Persèooo!”
Una mano tremolante emerge da un ammasso di corpi (io di solito a quel
punto accompagno il racconto con la mano aperta e irrigidita dal dolore che si
fa lentamente strada).
Il vecchio si avvicina a quella mano, scopre un volto insanguinato e, incredulo ma
speranzoso, domanda: “Sei Persèo?”
E la voce
morente: “Trentasèo!”
E io qui rido
come un idiota. Non solo la barzelletta farebbe ridere al massimo un bambino che non
la sapesse già e che avesse alle spalle una traumatica esperienza di tabelline
(cosa che oggigiorno non mi risulta più di attualità) ma se uno la sa già, o
addirittura la racconta lui medesimo, e per sovrappiù a se stesso...
Eppure,
immancabilmente, io sorrido.
E, senza
accorgermene, ho fatto un altro mezzo chilometro.
La morale? Ce
ne possono essere varie.
Sono stupido.
O faccio il
furbo. Anche con me stesso.
Oppure sono un
fine psicologo.
Oppure: quando
non ce la fai più ti attacchi a tutto.
“Chi si
accontenta gode” unito a “il male voluto non è mai troppo” potrebbero essere
due adagi che, benché usurati, sintetizzano in modo abbastanza appropriato.
In ogni caso ci
sono barzellette adatte ai lunghissimi e barzellette adatte alle ripetute.
Converrete con me che quella di Persèo sia da lunghissimo!
Converrete con me che quella di Persèo sia da lunghissimo!
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